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Digifrenia, l’intossicazione da mondo digitale

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di Lauro Venturi

Ho letto un libro (Rushkoff D., 2014, Presente continuo, quando tutto accade ora, Codice Edizioni, Torino) che mi ha fatto riflettere su come “ci troviamo in un’eternità breve piena di contraddizioni e paralizzata dal peso di una storia indelebile e di un destino prestabilito”. Con la Rete, il nostro passato viene a galla molto più in fretta. Per esempio, trovare un amico delle elementari è molto più facile e può capitarti anche se non lo cerchi, grazie agli algoritmi che governano e sovraintendono al mondo digitale.

Anche il futuro è condizionato, quando ricerchiamo un albergo in montagna, sui social siamo subissati di pubblicità in questo senso, quasi che un grande vecchio sia lì a prepararci ciò che ci serve. Un altro elemento evidente è l’accessibilità alla conoscenza (che non è necessariamente cultura), servita all’istante grazie a Google, Wikipedia.

Una volta occorreva un lungo viaggio per trovare la conoscenza e accumularla, ma quel tempo ci serviva per sedimentare l’apprendimento e, attraverso l’esplorazione, irrobustire la nostra esperienza in un circolo virtuoso tra andare, imparare e ritornare per poi ripartire. Adesso la lentezza non c’è più concessa e festina lente sembra uno slogan rivoluzionario. Ci guida la fretta, falsa apparenza dell’efficienza e della produttività, che ci assorbe in un gorgo che lascia fuori i pensieri più profondi e ci rende sempre più incapaci di riflettere.

L’approccio cognitivo e riflessivo della lettura, per esempio, è ridotto a vantaggio delle attività più superficiali e compulsive della Rete. Consumiamo tutto e subito senza doverci ricordare niente, tanto lo possiamo ripescare con un clic. Ma ripeschiamo una stringa di testo, non il cammino necessario al dato per diventare prima informazione, poi conoscenza e infine cultura.

Digifrenia

La compressione del tempo presenta però il conto, facendoci diventare, forse inconsapevolmente, digifrenici, persone che vivono molteplici ruoli: quello della vita reale e quello dei social, per esempio. Dialoghiamo con la tastiera con persone che non abbiamo mai visto e con le quali, dopo un caffè preso insieme, forse non vorremmo più avere a che fare. Giochiamo su più scacchiere, passando in fretta da un ruolo a un altro, senza il distacco necessario tra le due situazioni. Anche la bulimia d’informazioni superficiali, che ci arrivano sul telefonino senza troppi filtri, ci sballotta di qua e di là.

In Rete si sente una pressione che “trasuda urgenza e immediatezza disperata”, peccato che l’essere umano evolva molto più lentamente della tecnologia. D’altra parte ai computer non interessa il tempo, funzionano 24 ore al giorno per sette giorni la settimana. E così sembra naturale scambiarsi mail alle 11 di sera, anzi, questo è un segno di quanto siamo legati al nostro lavoro, un compiacimento per farci dire: “Che bravo che lavori anche a quest’ora!”. Salvo poi che ogni nostra attività può essere interrotta con una facilità estrema: telefono fisso, cellulare, bustina gialla che ti dice che è arrivata una mail, WhatsApp, Twitter, Messanger… E non vuoi vedere cosa succede su LinkedIn, o se c’è qualche cosa di nuovo su Instagram?

Tutti questi aggeggi che riempiono le schermate dei nostri smartphone, computer e tablet entrano senza chiedere permesso nel nostro tempo, siamo sempre connessi: ma per fare cosa? Nel 1956, per disporre di 3,75 MB, occorreva un macchinone di una tonnellata, che costava 3.200 dollari al mese. Adesso con 500 euro abbiamo uno smartphone di poco più di 100 grammi e una memoria 17 mila volte superiore.

Se a questo assommiamo la diffusione incredibile che questi aggeggi hanno avuto, la quantità di parole, immagini e suoni che scambiamo in Rete è inimmaginabile.
Grande quantità, ma la qualità di ciò che scambiamo? Sono certo che non sia migliorata, anzi, il sospetto è che la comunicazione via Rete sia oggettivamente degradata, superficiale e molto inefficace.

“Io non appartengo al tempo del delirio digitale”, canta Vecchioni. Noi invece siamo intossicati da questo digitale, che spesso diventa il fine e non il mezzo. Mi rendo conto che disintossicarsi non è facile, però mi piacerebbe iniziare a provarci.

 

Commento

  • Vedo con estremo piacere che si sta creando un convincimento molto diffuso che il digitale può provocare grossi danni. E forse una generazione la abbiamo già rovinata. Dovremmo essere capaci di governare l’innovazione, non di farci governare dal nuovo “perché nuovo”. Non potrebbe trattarsi anche di un problema di etica nei professionisti del digitale che non si preoccupano di educare all’uso ma solo di diffondere al massimo l’uso del digitale?

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