La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Femminismo sotto la bandiera Usa? Ricette locali contro le discriminazioni

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di Barbara Czarniawska, GRI, School of Business, Economics and Law, Università di Göteborg

Gli Stati Uniti d’America rimangono il centro della cultura globale, o almeno quella dei paesi occidentali. Questo vuole dire che sia i problemi sociali sia le loro soluzioni provengono dagli Usa, e queste soluzioni vengono imitate anche se, in molti casi, i problemi locali sono diversi oppure le soluzioni locali funzionano meglio. In questo articolo l’autrice mostra come sia la discriminazione delle donne sia le misure che le organizzazioni usano per combatterla vengono definite dagli Stati Uniti. Molto spesso, il risultato è peggiore di quello che si potrebbe ottenere definendo i problemi e applicando le soluzioni in armonia con la realtà locale.      

Una mia amica mi ha fatto un regalo, un libro in svedese intitolato Le mie amiche e io (Vänninorna och jag, Åsa Moberg, 2011). Contiene storie sull’amicizia tra otto donne nate alla fine degli Anni 40, quindi mie coetanee. Ero, naturalmente, molto interessata ai loro racconti così personali. A un certo punto della lettura mi sono imbattuta nel passaggio seguente: “Marianne proveniva direttamente dal movimento femminista americano. E io avevo un tale bisogno di sapere cosa succedeva alle donne nel mondo, cosa stava accadendo. Il nuovo. Le donne osavano spingersi oltre come non mai nella storia conosciuta e io volevo essere in prima fila con loro”. (Moberg, 2011, traduzione dell’Autrice).
Ho smesso di leggere a quel paragrafo, che si riferiva agli Anni 70 e che, senza dubbio, per ‘mondo’ intendeva New York. Davvero queste donne non sapevano nulla sui diritti di proprietà delle nobildonne russe (Marrese, 2002)? O sul fatto che la prima cattedra dell’Accademia Russa delle Scienze, nel 1782, fosse stata assegnata a una donna (Heldt, 1987)? O sulle suffragette britanniche? O sulle prime professoresse universitarie in Europa (Czarniawska e Sevón, 2008)? Ho riletto il testo.
È vero che da New York arrivava la grande novità del momento, uno speculum vaginale il cui uso non medico era in effetti nuovo. Ma una spiegazione migliore mi venne in mente quando lessi L’astuzia della ragione imperialista di Bourdieu e Wacquant. Dato che gli Usa sono ancora il centro del mondo accademico globale (e questo è ciò che si intende per ‘americano’, con gran disappunto di chiunque altro viva nel resto del Nordamerica, in America Centrale o in Sudamerica), è lì che hanno origine la misura del bene e del male, e la valutazione di ciò che è vecchio o nuovo. È sempre negli Usa che si decide cosa costituisce una discriminazione di genere e cosa no, ed è lì che si decidono le misure appropriate. In questo modo, la situazione di una particolare società storica “viene tacitamente eretta a modello per chiunque altro e diventa il metro di misura di tutte le cose” (Bourdieu e Wacquant, 1999).
Inizio dunque riassumendo il loro ragionamento, con l’avvertenza che ciò che Bourdieu e Wacquant presentano come ‘astuzia’ è in realtà un processo biunivoco involontario – un processo di modellazione e imitazione – che non cela nessuna cospirazione. Eppure questo processo occulta le variazioni locali, tanto nelle discri minazioni di genere quanto nelle misure per le pari opportunità, come tenterò di dimostrare qui.

Imperialismo culturale
L’imperialismo culturale si fonda sul potere di universalizzare i particolarismi connessi a una singola tradizione storica, facendo in modo che non vengano riconosciuti come tali. (Bourdieu e Wacquant, 1999)
Subito dopo questo passo, gli autori aggiungono una nota per spiegare che solo attualmente questa tendenza ha potuto essere attribuita agli Usa e che, a parer loro, ha cercato di fare lo stesso qualunque cultura ne fosse in grado, non escluse Francia e Germania in un passato non troppo remoto. In fatto di questioni di genere, il Regno Unito ha sicuramente tentato di mantenere una posizione guida, in particolare nelle tematiche che riguardano le scrittrici donne. L’esempio di Bourdieu e Wacquant riguarda il ‘multiculturalismo’ che, nella loro interpretazione, in Europa si rapporta con le problematiche dell’integrazione di molte culture ed etnie mentre negli Usa è un eufemismo per definire la discriminazione contro gli afroamericani.
Una polisemia che hanno notato anche riguardo a un altro termine, evocato spesso in questo contesto – globalizzazione – e che, a loro parere, porta a “sommergere” gli “effetti dell’ecumenismo culturale o il fatalismo economico così come le azioni che fanno apparire le relazioni di potere transnazionali come una necessità neutra” (1999). È stata probabilmente una riflessione simile che ha spinto Robertson (1995) a lanciare il concetto di ‘glocalizzazione’, per evidenziare quanto questo fenomeno agisca in una duplice direzione. Secondo Bourdieu e Wacquant, l’effetto concreto dell’attuale globalizzazione è l’imitazione generalizzata degli schemi di organizzazione sociale statunitensi, caratterizzati dalla “pauperizzazione dello Stato, la mercificazione dei beni pubblici e la generalizzazione dell’insicurezza sociale” (p. 43). Parole dure, ma senza dubbio le riforme ispirate dall’era reaganiana hanno rivoluzionato i welfare state (Czarniawska, 1997).
Nel mondo accademico, paradossalmente, il nuovo canone lanciato dagli Stati Uniti è invece basato su “una rilettura eclettica, sincretica e, il più delle volte, de-storicizzata e altamente approssimativa di una pletora di autori francesi e tedeschi” (Bourdieu e Wacquant, 1999). Uno dei loro principali esempi del trattamento ‘globalizzato’ del razzismo è la ripresentazione della multiculturalità in Brasile che segue lo schema americano, in un lavoro dello studioso afroamericano Michael Hanchard. La Fondazione Rockefeller e fondazioni simili, inoltre, sponsorizzano una ricostruzione totale di questa problematica in Brasile finanziando ricerche che si conformano a questo modello. Anche gli editori internazionali favoriscono libri e articoli che utilizzano schemi concettuali e terminologie americani, a prescindere da quanto siano adeguati (o inadeguati) per le condizioni locali.
Bourdieu e Wacquant menzionano anche gli studi di genere, puntualizzando che “l’imperialismo culturale (…) non trova modo migliore per imporsi che quando è servito da intellettuali progressisti (…) che dovrebbero apparire al di sopra di ogni sospetto di promuovere gli interessi egemonici di un Paese contro il quale brandiscono le armi della critica sociale” (1999). In realtà, non si tratta semplicemente di promuovere le soluzioni ‘giuste’. Come ha commentato una delle mie studentesse, esistono anche delle ‘Olimpiadi del martirio’, nelle quali i rappresentanti dei vari Paesi fanno a gara a mostrarne le deficienze, sempre secondo gli standard americani. Simili processi presentano anche un aspetto comico. Come quando, spiegano Bourdieu e Wacquant, termini europei non vengono tradotti ma trascritti in inglese, per poi ritornare come neologismi: ‘dispositif’ è una delle più recenti trascrizioni dal francese.

Professori ordinari donne
A dimostrare che né Bourdieu e Wacquant né io stiamo tentando di rivelare una sorta di cospirazione americana (Bourdieu e Wacquant affermano ripetutamente che altri Paesi farebbero lo stesso, se ne avessero l’opportunità), ho scelto di cominciare con un esempio blando. La mia collega svedese e io abbiamo condotto uno studio e scritto un paper sulle prime donne nominate professore ordinario in Europa (Czarniawska e Sevón, 2008), un altro testo frutto di esperienze personali. Ho studiato psicologia all’Università di Varsavia tra il 1965 e il 1970 e, in maggioranza, i professori ordinari e associati erano donne. Sfortunatamente, noi studentesse – 60 su una classe di 65 – la consideravamo una situazione svantaggiosa. Volevamo tanto incontrare giovani professori uomini, che preferibilmente fossero stati negli Usa e sapessero utilizzare l’SPSS (Statistical Package for the Social Sciences). Non ci faceva molta impressione il fatto che le nostre professoresse fossero esse stesse celebrità mondiali, o quanto meno avessero collaborato in passato con altre celebrità mondiali come Jean Piaget. Trasudavamo misoginia e avversione per la gerontocrazia.
Eppure queste donne non avevano rinunciato alla loro femminilità. Avevano famiglia e bambini. Come li gestissero, non ero abbastanza vicina a nessuna di loro per saperlo. Quello che so, è che quando diventai a mia volta assistente, le mie studentesse pensavano che una gravidanza potesse andare perfettamente d’accordo con la scrittura di una tesi dottorale – almeno, dicevano, potevano starsene sedute in silenzio e dedicarsi alla lettura. Dopo essermi trasferita a Stoccolma, dove non esercitavo più come psicologa, una volta volli portare una mia amica canadese, la professoressa Nina Colwill, a vedere il Dipartimento di Psicologia dell’Università. Immaginate la mia sorpresa: “Si vedono solo uomini in giro – dissi a Nina –, questa dev’essere Fisica o qualcosa del genere”. Avevo seguito la mappa, ma mi convinsi di avere sbagliato strada. Eppure eravamo nel posto giusto. La psicologia, così completamente femminilizzata in Polonia, in Svezia era invece un dominio maschile, almeno negli Anni 80.
Queste differenze tra Polonia e Svezia stimolarono il mio interesse per la storia: quando avevano cominciato le donne ad acquisire i ruoli di maggior rilievo nelle università? Da questa riflessione nacque uno studio focalizzato sulle storie di vita di quattro professoresse. L’articolo venne pubblicato su Gender, Work and Organization e tre studiose furono invitate a commentarlo. I commenti furono molto positivi, ma in tutti trovai degli spunti sfidanti.
La prima commentatrice, la Professoressa Joan Acker, era nata negli Usa, dove aveva vissuto per tutta la vita, anche se aveva trascorso lunghi periodi di tempo in Europa e specialmente in Svezia. Paragonava con attenzione le esperienze americana e svedese e sottolineava più volte che “le [i]nferenze tratte dalla ricerca riguardo agli Stati Uniti possono non essere applicabili alla situazione europea”, presumendo che la situazione svedese fosse rappresentativa dell’Europa in genere. Citando autori olandesi, sosteneva “che le istituzioni accademiche erano e sono ancora organizzate secondo presupposti maschili: potere, competizione e partecipazione sono immersi nell’aspettativa che i partecipanti siano uomini, in grado di dedicarsi anche oltre il tempo pieno al lavoro accademico o scientifico” (Benschop e Brouns, 2003). Inoltre, la figura del professore, e di un professore europeo in particolare, è uno stereotipo maschile. (Acker, 2008).
Avrei voluto che Joan avesse potuto incontrare alcune delle mie professoresse in Polonia, specialmente considerando ciò che dice più avanti nel suo commento: “Quando le donne sono entrate nel mondo accademico come studiose e potenziali professoresse, hanno tentato di diventare parte di un mondo che si basava sulla loro subordinazione e remissività” (ibid). Certo che no! Ma c’è una grande differenza di tempi e luoghi. Joan Acker venne assunta all’Università dell’Oregon come primo membro di facoltà donna nel 1967; nella Polonia indipendente, Cezaria Baudoin de Courtenay (Jędrzejewicz) diventò professoressa straordinaria (equivalente al Reader nel Regno Unito) nel 1929 e professoressa ordinaria nel 1934. [Marie] Skłodowska-Curie diventò professoressa ordinaria nel 1908. Sarebbe prematuro, comunque, concludere che le carriere di queste due donne polacche costituiscano una prova di progresso, aspetto che tratterò quando ritornerò alla situazione attuale in Polonia. La seconda commentatrice era la Professoressa Lotte (Lazarsfeld) Bailyn, che si è trasferita negli Usa da bambina. Sebbene sua madre fosse la studiosa di fama mondiale Marie Jahoda, Lotte crede ancora che “le donne in ruoli domestici e a supporto di quelli economici e sociali degli uomini, erano e sono a tal punto parte dell’ordine sociale naturale che contemplare questa strana devianza [accademiche donne] era quasi impensabile per molti scienziati e studiosi rinomati” (Bailyn, 2008).
La terza commentatrice era la Professoressa Marta Calás, che si descrive come una doppia immigrante relativamente recente. Marta si distanzia dall’immagine ancora viva nella memoria delle sue colleghe più anziane – la studiosa sottomessa e solitaria – ma applica un altro degli strumenti dell’‘imperialismo culturale’. Guje Sevón e io abbiamo usato la metafora dello straniero di Georg Simmel per descrivere la situazione delle prime professoresse. Nel farlo ci siamo anche scusate per l’uso sistematico dei pronomi personali maschili, spiegando che era l’abitudine dell’epoca (specialmente nelle traduzioni in inglese). La nostra commentatrice non ha colto questo punto: per lei era la prova indubbia dello sciovinismo di Simmel. Forse Lotte Bailyn ha ragione quando suggerisce che essere professoressa è pericoloso per la condizione della donna: a quanto pare, ho adottato senza rendermene conto un modo di pensare maschile… In alternativa, le differenze culturali possono talvolta essere più forti di quelle di genere.
Eppure questi sono gli esempi più blandi possibili e le commentatrici erano chiaramente consapevoli del pericolo di generalizzare a partire da aspetti particolari. Credo che il fenomeno si individui meglio se si osserva mentre si rivolge nella direzione opposta: una volontaria accettazione dei ‘modelli e metri di misura’ americani.

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 35000 circa – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419)

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