La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

La sfida del diversity management – parte 2

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Seconda parte del resoconto  della tavola rotonda di Sviluppo&Organizzazione Diversity management, il valore delle differenze per le organizzazioni, moderata da Chiara Lupi, Direttore Editoriale di ESTE.

A cura di
Daniela Rimicci

I partecipanti

  • Raffaella Bossi Fornarini, Adjunct Professor Multicultural Management, MIP – Politecnico di Milano
  • Federica Di Sansebastiano, Diversity Leader Italy, IBM Italia
  • Flaminia Fazi, Presidente, U2 Coach
  • Paola Iemmallo, Human Resources Director, Hotel Principe di Savoia
  • Massimiliano Maini, Vice President Human Resources Director, Frette
  • Monica Poggio, Direttore Risorse Umane, Bayer
  • Donatella Rettura, Process Designer e Membro Commissione Pari Opportunità, SIA
  • Rossella Riccò, Senior Consultant Area Studi e Ricerche, OD&M
  • Chiara Lupi, Direttore Editoriale di ESTE

Diversity da fotografare ed esaltare

Raffaella Bossi Fornarini
Raffaella Bossi Fornarini

Per Raffaella Bossi Fornarini questo è un tema di grande interesse, e sottolinea come il vero fine della gestione multiculturale sia la capacità di sfruttare le differenze, non di ridurle. Per questo al MIP si occupa spesso della integrazione e valorizzazione culturale in progetti di M&A: “In questi casi lo strumento che utilizziamo è la due diligence interculturale. Nato per acquisizioni e fusioni internazionali, questo tool è ora diventato di uso comune anche per creare sinergie fra aree diverse della stessa organizzazione oppure per accelerare l’ingresso di persone in azienda. Lavoriamo anche molto sul project management interculturale con strumenti che mappano una serie di caratteristiche individuali, che chiamiamo ‘agilità interculturale’. Questa mappa permette al singolo di conoscere i suoi punti di forza ma anche le competenze da rafforzare.” Le domande sono: ‘Rispetto a queste diversità cosa/ chi deve cambiare o dobbiamo veramente cambiare?’. La Bossi Fornarini ci spiega: “In molte ricerche si sostiene che il raggiungimento di risultati sopra la media si raggiunga in team nei quali convivono le diversità. La chiave non è più ‘come curo la diversità’: le aziende devono saper fotografare la propria organizzazione ed esaltarne tutti gli elementi che ne fanno parte. Perché essere ‘diversi’ porta più innovazione e più idee e capacità di risolvere i problemi.”

Flaminia Fazi
Flaminia Fazi

A proposito dell’importanza di mantenere la propria identità, Flaminia Fazi ci racconta un progetto gestito in Banca di Roma: si trattava dell’inserimento di nuove persone provenienti da altri istituti bancari che durante le presentazioni hanno esordito con ‘Io sono un ex banca di…’. “Dovremmo lavorare tutti, per costruire un percorso basato sulla centralità dell’individuo e affrontare le persone come tali. In un sistema identitario le persone devono potersi distinguere in quanto ‘diverse’ anche se la complessità è insita nel bisogno psicologico di sentirsi distinto dagli altri. In Italia è anche un discorso culturale, si tende a costruire ‘qualcosa’ anche sull’opposizione del diverso. Come in un’alchimia, bisogna a mio avviso trasformare la diversità in una ‘normalizzazione’ che non impedisca l’inclusione: la partita si gioca su progetti con un percorso di appropriazione della propria identità che non sia diminutivo di quella altrui, ma anzi che valorizzi la conoscenza reciproca in modo costruttivo e permetta un ‘patto’ di accettazione e di scambio. Ci sarà secondo me nella prossima generazione un importante shock culturale all’interno delle organizzazioni che si troveranno italiani ‘di tutti i colori’ a differenza delle attuali nicchie manageriali italiane: per avere successo di qui a breve ci dovrà essere una maggiore capacità di attenzione alla particolarità e capacità dei singoli, e coltivarle positivamente in funzione dell’azienda, e non come velleità individuali come a volte ancora accade”. Ci si aspetta quindi una cultura manageriale più attenta a questi temi e che sappia affrontare gli argomenti anche con maggior consapevolezza.

L’italianità dei pregiudizi

Massimiliano Maini
Massimiliano Maini

Massimiliano Maini fa un’osservazione in merito all’approccio dei manager: “Noto spesso in loro un muro di preconcetti che creano un freno e in alcuni casi anche un blocco a qualsiasi tipo di diversità nel senso ampio del concetto. In questo momento storico, facciamo fatica a gestire e riconoscere come oggettivi anche alcuni eventi che se fossimo abituati ad approcciare con i principi del diversity invece apparirebbero del tutto normali. Un caso tipico riguarda la presentazione di candidature di persone che hanno perso il lavoro: spesso ci si interfaccia con loro pensando che è colpa del candidato se al momento si trova senza occupazione, anche quando i fatti dimostrano il contrario e per questo motivo lo si esclude preferendo persone occupate”.

Federica Di Sansebastiano
Federica Di Sansebastiano

Secondo Federica Di Sansebastiano spesso i cambiamenti culturali sono legati a interventi normativi che obbligano a un ripensamento delle prassi consolidate e a una riflessione sui benefici del cambiamento. Ad esempio l’idea della necessità di inserire le persone con disabilità al lavoro ha avuto bisogno per affermarsi in prima battuta in un cambiamento delle norme, da questo è poi scaturita la considerazione che la diversità può diventare un valore aggiunto per l’azienda. In IBM Italia, per esempio, un gruppo di colleghi disabili, proprio in virtù della loro esperienza di vita, ha dato un fondamentale contributo all’azienda collaborando allo sviluppo di progetti di accessibilità informatica”. Rispetto alle differenze tra culture, Maini solleva un tema interessante, riflettendo su come in Italia “siamo molto aperti mentalmente quando i problemi non ci coinvolgono direttamente, sappiamo riconoscerli, ma li sentiamo lontani dalla nostra sfera e quindi non pericolosi. Quando usiamo il termine ‘cultura’ siamo proiettati lontano e paradossalmente anche più aperti al confronto, questo succede ad esempio se ci raffrontiamo con un cinese, che percepiamo ‘diverso’ da noi e siamo disposti a capirne e accettarne le differenze, piuttosto che con un lombardo, un laziale o un marchigiano rispetto ai quali, pur non conoscendone le tradizioni culturali, siamo meno predisposti ad accoglierne le espressioni…”.

Riorganizzare il lavoro e riprogettare l’organizzazione

Rossella Ricco'
Rossella Ricco’

L’inserimento di culture diverse o fusioni aziendali riportano a una necessità di ripensamento organizzativo secondo la Riccò: “Ci si chiede perché il diversity management ancora non sia un tema nelle agende del top management. Perché non c’è ancora chiarezza in merito al suo significato: per alcuni si tratta di gender, per altri di genitorialità e di diversità geografica- culturale. Il concetto più profondo del termine cui bisognerebbe fare sempre riferimento è la gestione della centralità della persona: riconoscerla con le sue specificità, diversi livelli motivazionali e capacità di linguaggio e connessione. Si deve puntare a conoscere e valorizzare le peculiarità di ciascuno e ripensare la struttura organizzativa con tutti gli elementi di garanzia, come equità interna ed esterna rispetto a ruolo e competenze. Noi diamo delle linee guida di progettazione e azione e dove troviamo un terreno fertile i percorsi rappresentano una fonte di arricchimento, sia per l’individuo sia per l’azienda. In occasione di fusioni di realtà aziendali è utile predisporre indagini o focus group per capire i distinti valori delle parti, studiarne i punti comuni e integrarli nel modo migliore possibile. È chiaro che le persone di una stessa cultura si rapportano meglio e riescono a interpretare in modo più profondo i bisogni espressi e non espressi dell’altro.

Paola Iemmallo
Paola Iemmallo

Come ci ha raccontato Paola Iemmallo dove nell’Hotel Principe di Savoia un addetto ai lavori arabo saprà prestare attenzioni a un ospite della stessa provenienza che a un altro dipendente, probabilmente, non verrebbero nemmeno in mente”.

Colmare il gap generazionale: saranno vincenti le aziende audaci
La diversità generazionale spesso è un ostacolo alla comprensione, ma può essere un valore aggiunto se si mettono a frutto le singole peculiarità delle persone affinché si sentano valorizzate portando un vantaggio all’azienda. “L’età purtroppo è un’aggravante –racconta Maini– per un manager tra i 50-60 anni precedentemente licenziato risulterà certamente più difficile ricollocarsi perché considerato meno flessibile, adattabile e aperto ai cambiamenti. Un altro tema riguarda le criticità che si troverebbe ad affrontare un 50enne con un ruolo subordinato a un manager 30enne. Sono situazioni che non dovrebbe costituire alcun ostacolo se si parla di diversity&inclusion: l’età anagrafica non implica necessariamente né maggiori capacità e conoscenze, né una implicita dipendenza gerarchica.
Spesso tuttavia culturalmente diventa una licenza a comportarsi per esempio in modo ‘informale’ anche in contesti che richiedono relazioni più formali”. Maini aggiunge che rispetto agli anni 90 la generazione attuale di giovani è culturalmente molto più aperta alle novità, più rapida a coglierne le variazioni, ma molto meno propositiva e predisposta a fare la ’gavetta’, cercando rapidamente posizioni apicali senza avere la giusta miscelazione tra competenze tecniche, gestionali e relazionali, oltre che la capacità di vivere il contesto e di saperlo riconoscere. “A mio avviso bisogna quindi trovare il punto di contatto tra le generazioni professionali e favorire lo scambio tra due mondi ‘diversi’ stimolando le funzioni aziendali a interagire senza creare un ‘taglio netto’ tra loro, sapendone invece valorizzare le caratteristiche peculiari”.
Il tema è forte ed è sentito. Cosa può fare allora davvero il responsabile risorse umane? Incalza anche la Iemmallo: “La nuova generazione non valorizza l’esperienza con il giusto peso. In Hotel proponiamo dei focus group affinché i ragazzi e i profili più senior dialoghino in ogni reparto e in modo ‘cross’ tra i reparti. Mi rendo conto che non appena si allenta la pressione sui focus group il ‘castello’ cade e riscontro una discontinuità. Su questo bisogna lavorare ancora parecchio”.
“Vivono le esperienze in modo visivo e distaccato senza coinvolgimento fisico – aggiunge la Fazi – non c’è la mentalità dell’impegno. Inoltre sono nati con il sostegno anche dei genitori in una società di diritto, ma in cui vengono strumentalizzati e senza sicurezza. Un giovane che studia e si impegna quando si immette nel mondo del lavoro non ha prospettiva o l’opportunità di costruire un senso di appartenenza all’organizzazione cui dare il proprio contributo, si trova in un ambiente contrattualmente discutibile e magari sottopagato. Tutto questo aggrava la situazione e ci sarà ancora molto su cui lavorare”.
Le generazioni passate potranno essere d’aiuto in questo senso, nel supporto ai giovani colleghi trasmettendo loro il valore di dare con tutto l’impegno possibile il proprio apporto all’azienda sentendosi parte integrante di essa. Questo sotto un profilo sociologico, ma a livello applicativo all’interno dell’organizzazione cosa si può fare? Risponde la Bossi Fornarini: “Nella nostra struttura abbiamo creato un programma chiamato Cultura Zero Alibi: aiuta le persone a scoprire come trasferire in azienda le passioni e l’impegno che spesso vivono al di fuori dell’azienda, a realizzare le loro ambizioni, ad agire con energia e piacere, a focalizzarsi su come realizzare i loro progetti senza alibi, anzi, malgrado le difficoltà”.
In termini applicativi la Riccò descrive una modalità pratica di focus group con le diverse generazioni che si trovano a confronto per risolvere insieme un problema aziendale: “La formazione da sola non basta, bisogna far vivere un’esperienza e dimostrare come il pregiudizio impatta su se stessi, anche attraverso gruppi inizialmente separati e poi uniti con giochi di ruolo”. Può essere uno spunto per l’organizzazione grazie a due visioni distinte: il vissuto del profilo senior e l’idea nuova del junior che insieme portano valore nell’affrontare i problemi. L’attenzione di un’azienda rispetto ai temi del diversity management si può riscontrare verificando la coerenza tra i valori e le azioni. “È importante – dice Riccò – che ci sia una congruenza di questi fattori soprattutto nei momenti più duri come riorganizzazioni e uscita delle persone dall’azienda: non solo per chi esce ma anche per chi resta. Credo sia poco credibile un’azienda che sostiene di valorizzare le persone e poi in un processo di riduzione del personale non si preoccupa di sostenerle nella ricerca di un nuovo lavoro. Il diversity management non deve rimanere un’intenzione o un insieme di belle dichiarazioni ma deve prender forma con azioni concrete”. Di certo non esiste un modello di applicazione univoco, ma la condivisione delle esperienze porta con sé nuove idee e progetti: è necessario creare una cultura più sensibile di attenzione alle persone nell’ottica costruire un’organizzazione di successo.

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