La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Laboro ergo sum, quando il lavoro abilita l’uomo

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disabilitydi Silvia Angeloni ed Elio Borgonovi

Nonostante siano già decorsi 10 anni dall’approvazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, le buone prassi per la inclusione della più grande minoranza del mondo, circa 1 miliardo di persone, continuano a essere disattese nei contesti aziendali. Le più recenti emergenze sociali, rappresentate dalla persistente disoccupazione giovanile, dal crescente flusso dei migranti e dal preoccupante aumento delle disuguaglianze e della povertà, sembrano aver posto in secondo piano la questione dell’occupazione delle persone con disabilità.

Tale questione costituisce il centro di riflessione del presente contributo, volto a illustrare l’importante ruolo che le aziende dovrebbero svolgere per garantire una adeguata cittadinanza lavorativa e sociale alle persone con disabilità. Dopo una ricognizione di natura concettuale e demografica, si analizzano alcune recenti ricerche internazionali in tema di disability management, per poi evidenziare le sfide che le aziende italiane sono chiamate ad affrontare, anche in virtù di alcune novità legislative.

Molti Paesi dispongono da tempo di una legislazione volta a favorire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità (Schur, Colella e Adya, 2016). Nel 2017 sono almeno 160 i Paesi firmatari della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2009. I progressi politico-legislativi sono il risultato di un lungo dibattito culturale, culminato nel 2001 con la pubblicazione dell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) della World Health Organization (WHO, 2001).

Nell’impostazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2004, p. 181), la disabilità è il risultato di una complessa relazione e indica gli “aspetti negativi dell’interazione tra un individuo (con una condizione di salute) e i fattori contestuali di quell’individuo (fattori ambientali e personali)”. L’ICF ha quindi fornito un punto di riferimento, tuttora valido, basato sul modello biopsicosociale e universale della disabilità (Angeloni, 2013b).

Il modello è definito “biopsicosociale” perché la disabilità è interpretata come la risultante di fattori biologici, psicologici e sociali. Il modello ha un carattere “universale”, in quanto la disabilità è una situazione che ogni persona può sperimentare nel corso della propria vita, “poiché tutti possono avere una condizione di salute che, in un contesto ambientale sfavorevole, diventa disabilità” (Leonardi, 2005, p. 89).

In coerenza con questo quadro concettuale, e secondo un paradigma ormai largamente condiviso, anche le (dis)abilità lavorative sono questioni non solo mediche o individuali, ma fenomeni profondamente sociali e organizzativi, che richiedono il raccordo di vari servizi, il coordinamento di diversi attori nei luoghi di lavoro, il rispetto dei  principi dell’accessibilità e della progettazione universale (universal design), nonché la promozione di una cultura inclusiva (Liukko e Kuuva, 2016; Pransky et al., 2004).

Come spiegato dall’International Labour Organization (ILO, 2015), per “inclusione della disabilità” si intende un processo che promuove e garantisce la partecipazione della popolazione con disabilità nell’educazione, nella formazione, nel lavoro e in tutti gli aspetti della vita sociale, fornendo quei necessari supporti e accomodamenti ragionevoli che sono strumentali a una piena partecipazione.

“L’inclusione delle persone con disabilità è un problema di rispetto di diritti umani e nello stesso tempo una convenienza economica, per tutto il genere umano” (Griffo, 2013, p. 23). “Misurato come percentuale della spesa sociale pubblica totale, il costo della disabilità è circa il 10% in media in tutta l’area OECD con punte del 25% in alcuni Paesi” (Tiraboschi, 2015, p. 6).

Metodologia della ricerca

Il fine della presente ricerca è quello di illustrare lo stato dell’arte in tema di disability management (DM) sotto tre punti di vista: dal punto di vista statistico-demografico, dottrinale e legislativo.
Le recenti statistiche mondiali, integrate con le considerazioni sui cambiamenti indotti dalla globalizzazione, sono menzionate per documentare l’ampio raggio di azione del
DM e per giustificare la sua utile spendibilità all’interno di qualsiasi realtà aziendale.

L’analisi di alcuni contributi scientifici internazionali è strumentale a verificare l’esistenza di eventuali progressi e/o la persistenza di storiche criticità nell’implementazione
delle politiche di DM. I contributi scientifici di seguito illustrati sono stati selezionati in virtù della coesistenza di tre requisiti: un requisito temporale (rappresentato, per lo
più, dal 2016 come anno di pubblicazione delle ricerche), un requisito contenutistico (avendo circoscritto il campo di indagine agli studi con un focus specifico sul DM nei
luoghi di lavoro) e un requisito metodologico (essendo state privilegiate le analisi di tipo evidence-based).

Infine, l’approfondimento di natura giuridica si è reso necessario per dar conto delle interessanti novità legislative che hanno rivisitato la formula del “collocamento mirato”
nel contesto italiano, con efficacia giuridica a decorrere dal 1° gennaio 2017.

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 62.000 circa) – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it
(tel. 02.91434419)

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