La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Lo zen e il benessere sul posto di lavoro – parte 2

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Le ricerche
Due le ricerche che abbiamo svolto al fine di valutare i collegamenti fra l’esercizio della meditazione vigile e il benessere individuale e organizzativo. La prima, in collaborazione con l’Associazione Managerzen, presso un’azienda di Parma –la Davines SpA– da maggio a luglio 2009 su un gruppo di 29 persone: 18 che hanno partecipato al training e 11 con funzione di campione di controllo.
Pausa di lavoro Il training ha avuto la durata di otto settimane, con otto sessioni guidate di 90 minuti, a cadenza settimanale, e una pratica giornaliera di 45 minuti per i restanti giorni della settimana lavorativa, da svolgersi in gruppo senza la guida del trainer, all’interno dell’azienda. La seconda ricerca (maggio 2011), ha coinvolto 26 studenti del corso di Economia e gestione delle imprese dell’Università di Verona, suddivisi per estrazione in un campione sperimentale e uno di controllo. Per questa abbiamo utilizzato un training decisamente più breve: una sessione guidata di un’ora per cinque giorni alla settimana per un periodo di due settimane.

L’aspetto soggettivo
In entrambe le ricerche è stato utilizzato un questionario volto a indagare il vissuto dell’esperienza e gli eventuali effetti rilevati soggettivamente. Il primo dato che ne emerge è senz’altro quello di un netto gradimento dell’esperienza, giudicata ‘neutra’ soltanto da un soggetto in ognuna delle due ricerche, mentre gli altri si sono espressi con un giudizio globale ‘positivo’ o ‘molto positivo’.
Un dato, questo, che assume un particolare rilievo soprattutto per l’esperimento svolto in azienda, dove il training si è svolto in orario extra-lavorativo. Questa considerazione, unita al gradimento complessivo dell’esperienza, lascia intendere, da parte del personale, la disponibilità a partecipare –con il proprio tempo e con le proprie energie– all’investimento in benessere fatto dall’azienda.
A sostegno di questo, la constatazione che in nessun caso, nei feedback rilasciati, sono state espresse lamentele sulla scelta degli orari. Anche per quanto riguarda gli specifici ambiti indagati dal questionario –benessere psicofisico, emozionale e relazionale, resistenza allo stress, concentrazione, capacità di gestire situazioni di lavoro complesse– i dati mostrano una netta prevalenza delle risposte in senso positivo, con un’area di incertezza (“Non saprei dire”) che si attesta su una media del 15%. Un risultato, questo, convalidato nei commenti liberi, dove viene ulteriormente ampliata la gamma degli effetti rilevati, anche oltre a quelli specifici indagati dal questionario e senza distinguere fra l’ambito personale e quello professionale. Circostanza, quest’ultima, che conferma il valore trasversale dell’esperienza nella percezione dei partecipanti, che l’hanno vissuta come un’occasione di miglioramento personale ma anche, nello stesso tempo, come un fattore in grado di incrementare l’efficienza sul lavoro, e avvalorandone così il ruolo strategico nel ridurre la distanza fra individuo e organizzazione, fra interesse privato e obiettivi aziendali.

La valutazione del benessere
Per una valutazione più oggettiva degli effetti sul benessere psicofisico ci siamo affidati, per la ricerca in azienda, al test MHQ (Minnesota Hospital Questionnaire), in grado di quantificare i seguenti tratti: ansia libera, ansia fobica, ossessività, somatizzazione, depressione, isteria.
La somma dei valori (‘indice di nevroticità’) è usata per valutare il rischio di stress e burn-out. Tale indice –misurato prima e dopo il training– si è ridotto mediamente del 23,35% per il campione sperimentale, contro il 15,7% del campione di controllo.
Particolarmente significativo il miglioramento di alcuni specifici indici (fra parentesi i risultati rilevati nel gruppo di controllo g.d.c.):

– somatizzazione (trasferimento a livello somatico di disturbi psichici): -31,03% (g.d.c. -5,00%), probabilmente da attribuire allo sviluppo di una maggiore consapevolezza psicofisica indotta dalla pratica meditativa;
– depressione (tristezza, calo di interesse, rallentamento dei processi mentali): -31,25% (g.d.c. -11,54%): un risultato, questo, che conferma precedenti ricerche nelle quali è stato evidenziato il ruolo della mindfulness nell’attivare le cosiddette “aree cerebrali della felicità”, collegate alle emozioni positive e agli stati di benessere;
– isteria (influenzabilità eccessiva, eccessi emozionali): -27,59% (g.d.c. -7,94%), indubbiamente da attribuirsi a una migliore gestione delle emozioni e delle interferenze emotive.

L'enso, simbolo centrale dello zen
L’enso, simbolo centrale dello zen

Per la seconda ricerca è stato utilizzato il questionario PGWBI, che indaga le dimensioni: ansia, depressione, positività e benessere, autocontrollo, salute in generale, vitalità. Anche in questo caso la somma dei valori (Indice Globale del Benessere Percepito), rilevata prima e dopo il training, va a netto favore del gruppo di studio, con un incremento medio del 16,85% contro il 5,69 del gruppo di controllo.

Particolarmente significativi i risultati per alcuni indici:

– ansia: riduzione del 29,3% (g.d.c. 15,7%);
– positività e benessere: aumento medio del 21,13% (g.d.c. 8,05%);
– autocontrollo: 21,67% di miglioramento, contro un peggioramento del 2,44% nel g.d.c.;
– vitalità: 12,99% a fronte, anche in questo caso, di un peggioramento del 2,78% nel g.d.c.

Per una migliore valutazione dei dati, va ricordato che la ricerca si è svolta in periodo di esami, e dunque in un momento di massimo impegno e intenso stress emotivo e mentale.

Indicatori di performance
Per quanto riguarda gli effetti nell’ambito prestazionale abbiamo valutato, mediante test computerizzati, alcuni tipi di attenzione, considerando che questa rappresenta, oggi, una risorsa trasversale a ogni attività lavorativa e professionale. In particolare, per la ricerca in azienda, abbiamo misurato, prima e dopo il periodo di training, la capacità di prestare attenzione ad alcuni segnali e di trascurarne altri (attenzione selettiva) e quella di prestare attenzione contemporaneamente a segnali di tipo diverso (attenzione divisa).

I risultati hanno evidenziato un incremento medio delle risposte esatte del 14,51% (contro il 2,94% del g.d.c.) per l’attenzione selettiva, e dell’8,53% (a fronte di uno 0,83% nel g.d.c.) per l’attenzione divisa. Anche i risultati ottenuti sul campione di studenti mostrano la stessa tendenza, seppure con minore evidenza in una delle due prove. Due, anche in questo caso, le abilità valutate: resistenza alla distrazione e attenzione multipla.
Questi i risultati, misurati come incremento medio percentuale delle risposte esatte prima e dopo il training: resistenza alla distrazione: + 0,61% (g.d.c. -0,07%); attenzione multipla: + 8,43% (g.d.c. -1,30%). Da notare come il gruppo di controllo abbia mostrato in entrambe le prove un peggioramento, probabilmente a causa dello stress collegato agli imminenti esami da sostenere. Diverse le dinamiche che possono essere addotte per spiegare gli effetti delle pratiche di mindfulness sull’attenzione e sulla concentrazione. La prima, di tipo neurofisiologico, che recenti studi hanno identificato con un’attivazione di specifiche aree cerebrali. La seconda, collegata a una più efficace gestione dell’ansia –e in particolare dell’ansia da prestazione– che ha consentito ai soggetti di svolgere la seconda prova con maggiore tranquillità. A queste si aggiunge quella tipica riduzione delle ‘interferenze mentali’ che rappresenta uno degli effetti più noti della meditazione.

Rilevazioni oggettive

Bodhidharma, padre della meditazione zen e fondatore del tempio di Shaolin, in una rappresentazione del pittore Yoshitoshi
Bodhidharma, padre della meditazione zen e fondatore del tempio di Shaolin, in una rappresentazione del pittore Yoshitoshi

Anche se nell’ambito del benessere individuale –così come inteso e definito in questo lavoro– l’aspetto soggettivo è quello più rilevante, per un quadro più completo degli effetti abbiamo ugualmente ritenuto utile, nel secondo studio, misurare alcuni parametri fisiologici collegati con gli stati di stress, ansia e tensione psicoemotiva.

Elettromiografia di superficie. Mediante tre sensori sulla fronte è stata misurata l’attività elettrica muscolare dei soggetti a riposo, che è tanto più bassa quanto più il soggetto è rilassato. La rilevazione prima e dopo il periodo del training ha mostrato nei praticanti una riduzione della tensione pari al 34,56%, contro un incremento dell’11,76% nel gruppo di controllo.

Resistenza cutanea (GSR o Galvanic Skin Resistence). La risposta elettrica della pelle risente, tramite il sistema nervoso simpatico, del livello di attivazione generale (arousal) dell’organismo. Nel misurarla vengono considerati due indici: il valore tonico, che aumenta proporzionalmente al rilassamento di un soggetto, e quello fasico che, al contrario, aumenta negli stati di ansia soprattutto causati dall’attività mentale. Il primo dato –GSR tonico– ha confermato sostanzialmente quanto rilevato attraverso l’elettromiografia, e cioè un deciso aumento (+ 31,17%) della capacità di trovare il rilassamento e di contrastare lo stress per il gruppo sperimentale, a fronte di un peggioramento (– 9,68%) del gruppo di controllo. Per quanto riguarda invece il GSR fasico, entrambi i campioni hanno mostrato un peggioramento, che sembra ragionevole attribuire alla preoccupazione per gli esami imminenti. Anche in questo caso, però, il gruppo sperimentale ha mostrato una reazione nettamente più contenuta (26,79%) rispetto al gruppo di controllo (85,19%), probabilmente da attribuirsi a una migliore gestione dell’ansia.

Implicazioni manageriali
Pur nella necessità di ulteriori indispensabili verifiche, i risultati raggiunti in queste due prime ricerche sembrano confermare l’esistenza di un collegamento diretto fra l’esercizio della consapevolezza, il benessere individuale e organizzativo e, attraverso essi, le performance dell’organizzazione. Si avvalora in questo modo il ruolo della meditazione vigile come strumento concreto per realizzare –nelle parole di un manager che lo ha sperimentato– una “conciliazione virtuosa delle prestazioni dell’azienda con il benessere di chi ne fa parte”, laddove “questi due aspetti non siano strumentali l’uno all’altro […], quanto piuttosto elementi inscindibili del senso di quel vivere in comune che è un’azienda e che non si può esaurire in uno scambio materiale di do/prendo. Piuttosto lo scambio è basato sul contribuire alla longevità dell’impresa, la ragione per cui un’impresa deve fare profitto rendendo soddisfatti i suoi azionisti, e gli altri stakeholder, con il godere di una opportunità che possa contribuire a vedere realizzato il proprio progetto di vita”.

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