La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Mi manca l’ufficio

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di Francesco Donato Perillo

Cari lettori e colleghi, devo farvi una confessione. Da quando ho lasciato il lavoro in azienda per dedicarmi alla libera professione ho cominciato a soffrire di nostalgia. È vero, ho avuto un primo periodo di entusiasmo per essermi liberato da qualcosa che cominciava a farmi sentire dentro una gabbia, ostaggio di logiche che spesso ero costretto a ingoiare, esposto ad agguati, trappole e voltafaccia, spremuto come un’arancia o messo in salamoia, tirato verso obiettivi improbabili e poi mollato. Oggi, una volta libero di organizzare la mia attività, senza l’assillo di un capo ansioso e di un collega assillante e libero soprattutto dalle catene del controllo, mi sono ritrovato con il mio ufficio racchiuso nel pc e nello smartphone.
Sono saltati tutti gli schemi con i quali avevo gestito la coabitazione della mia vita con l’azienda: alzarmi ogni mattina sempre alla stessa ora (prima del sole), ripassando in veloce successione sotto una rapida doccia gli impegni della giornata, vestirmi in tutta fretta e uscire per immettermi nel flusso mattutino dei pendolari. E poi il rito del cappuccino al bar aziendale, i ‘cazzeggi’ e le battute del mattino con i colleghi, i commenti sullapartita, su quel comunicato o sull’ultima organizzazione. Forse quei 10 minuti quotidiani già valevano la giornata e compensavano la pena di un pendolarismo di vita divenuto ormai automatico, un abito, un modo di essere. Infine, seduti alla propria scrivania come davanti a un cruscotto di comando, subito con la faccia nel display a leggere le e-mail, la mano sul telefono pronto a chiamare per chiedere chiarimenti, a dare istruzioni o rispondere alle richieste più impulsive. Le interruzioni non gradite di un collega, la difficoltà di concentrarsi per il vociare continuo nell’open space. E la convocazione dal capo, i lunghi resoconti, gli interrogatori, i report dettagliati per saziare la sua fame di controllo; le interminabili attese nelle anticamere dei grandi direttori per raccogliere una firma; i ‘si dice’ nei corridoi. Ma il piatto forte era la riunione con il mio team per fare il punto o per risolvere una impasse: si parlava senza peli sulla lingua, ci si accalorava e a volte si tirava fino a tardi perdendo il fuoco sull’obiettivo e consumando insieme un panino per cena. E la sera a casa, salvo imprevisti, in tempo per il telegiornale delle 20, per cenare con moglie e figli abituati a vedermi riapparire al termine della giornata per fare insieme un consuntivo. Ora con lo smart working mi tengono sempre tra i piedi e consuntivi non ne facciamo più.
Ora che incontro su Skype gli stakeholder quotidiani del mio lavoro di consulente e condivido file con Google Drive, e che ogni quarto d’ora, dovunque io sia, lo smartphone mi sincronizza l’arrivo della posta elettronica, mi manca l’ufficio.
Sono iperconnesso, più multitasking di prima, ma ho perso il ritmo. Con lo smart working è come girare su una giostra sempre in movimento e a velocità variabile. Il tempo si è liquefatto lasciandomi senza orari. Il ritmo è importante, dà equilibrio, perfino armonia (e disciplina) alla giornata e scandisce l’avanzamento del fare. Prima non lo sapevo. Ora non vendo più il mio tempo all’azienda, ma non ne ho più la gestione. Vivo una realtà aumentata, ho potenziato la mia capacità di risposta e la mia produttività, tuttavia mi mancano le relazioni, il calore, la carne. Il mio ufficio è dovunque io sia, ma mi manca l’ufficio. 

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