La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Addio al gap generazionale in azienda. La soluzione è il reverse mentoring

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Intervista a Raffaella Temporiti, Direttore Risorse Umane di IBM Italia, e Silvia Parma, HR Director di ABB Italia
di Nadia Anzani

Ridurre la disparità sui luoghi di lavoro tra Baby boomer, Millennial e Generazione X. Obiettivo: continuare a crescere e non perdere in termini di produttività. Una sfida che le aziende italiane dovranno affrontare nei prossimi anni perché solo così sarà possibile trasformare le diversità del personale in risorse per l’intera organizzazione. Come? Attraverso un confronto costruttivo fra junior e senior capace di mette le competenze degli uni a disposizione degli altri. Gli esempi e i risultati raggiunti da IBM e ABB, dove questo processo è già attivo.

Nelle affollate sale dell’ultimo World Economic Forum di Davos, il premier canadese Justin Trudeau ha invocato con fermezza: “Una società che riconosca la diversità come fonte di forza”, portando al centro della discussione fra i rappresentanti delle più grandi aziende al mondo l’importanza di ridurre le disparità sui luoghi di lavoro per aumentare la produttività. Tema su cui le imprese italiane dovrebbero meditare seriamente se non vogliono perdere l’ennesimo treno diretto verso la crescita. In particolare la loro concentrazione nei prossimi anni si dovrà focalizzare sul fattore V, come vecchiaia. I numeri parlano da soli. In Italia nel 2033 la quota di Over 50 arriverà a 22,5 dagli attuali 17 milioni. Con un tasso di occupati in questa fascia destinato a lievitare, non solo per l’inarrestabile invecchiamento demografico, ma anche per l’innalzamento dell’età pensionabile. Per questo, gestire le risorse senior, motivarle, farle sentire attive all’interno dell’organizzazione aziendale, aggiornare costantemente le loro skill e azzerare le tensioni tra vecchie e nuove generazioni, saranno le sfide da vincere. E il reverse mentoring potrebbe essere uno strumento adeguato per trasformare la diversità in risorsa in tempi ragionevoli. Uno scambio win-win dove i senior, prevalentemente manager o quadri, ricchi di esperienza, impiegano qualche ora del loro tempo confrontandosi con le giovani generazioni, che da parte loro mettono a disposizione dei colleghi più maturi le competenze digitali, piuttosto che i segreti delle nuove tecnologie per gestire in modo innovativo servizi, progetti, produzione, organizzazione, comunicazione e promozione. Nel reverse mentoring, insomma, il sapere tecnologico del giovane e l’esperienza del senior si incontrano per accrescere in entrambi la consapevolezza del mondo circostante. Il primo a utilizzare questo programma fu Jack Welch, storico e innovativo CEO della General Electric, che nel 1999 chiese a 500 dei suoi top manager di trovare dei giovani impiegati che potessero spiegare loro come usare internet. Allo sconcerto iniziale seguì un successo che fece scuola.

Primo: limare il gap generazionale
Quello citato è un esempio efficace ed economico per fare formazione che le nostre aziende potrebbero adottare per limare il gap generazionale tra l’esercito di Baby boomer, spesso in posizioni di vertice, e i cosiddetti Millennial (i nati tra gli Anni 80 e il 2000), a cui si aggiungono i colleghi della Generazione X (nati tra la metà degli Anni 60 e la fine dei 70). Ad evitare così che la convivenza rischi, sotto la spinta di esigenze produttive pressanti e di richieste del mercato sempre più veloci, di sfociare in una lotta di posizione tra giovani e anziani. Un braccio di ferro estenuante e improduttivo tra l’appello al passato, come fonte dei valori e delle virtù da una parte e quello alle tecnologie, come fonte del progresso e della competizione dall’altra. Dina-miche che vanno assolutamente arginate se l’obiettivo è quello di garantire continuità e capacità produttiva alla propria azienda.
Eppure la maggior parte delle società in Italia sembra ancora ignorare il problema. Secondo un’indagine condotta da Università Cattolica e Fondazione Sodalitas, solo quattro aziende su 100 hanno progettato interventi di sostenibilità e di invecchiamento attivo della forza lavoro e a fare seriamente due conti sul rapporto tra lavoratori Over 50 e sapere tecnologico. E tra quelle che lo hanno fatto, molte sono ricorse appunto al reverse mentoring.
“Questo tipo di iniziative in genere ha molto successo”, spiega Silvio Ripamonti, Ricercatore della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, “perché evitano di far sentire i senior ghettizzati, come invece succederebbe mettendoli in un’aula di formazione tradizionale. Creando un gruppo di lavoro misto che comprenda senior, junior ed elementi della generazione di mezzo, impegnato per 10 mesi o un anno su un processo di lavoro concreto, al contrario, si raggiungono buoni risultati in poco tempo, perché si mettono in campo in automatico le competenze degli uni e degli altri con un confronto costruttivo e formativo”, precisa Ripamonti convinto sostenitore del reverse mentoring come volano dell’integrazione tra diverse generazioni.

 

Senior, l’aggiornamento degli skill non basta
Lo sanno bene in IBM dove si fanno processi di reverse mentoring centrati non solo sull’aggiornamento degli skill digitali e tecnologici della popolazione senior, ma anche su altre tematiche di stretta attualità. “Loutilizziamo, infatti, anche per migliorare il rapporto e la conoscenza tra i leader Over 50 e i gruppi di donne, persone con disabilità, comunità Lgbt (Lesbian, gay, bisexual e transexual) e i differenti gruppi culturali ed etnici”, spiega Raffaella Temporiti, Direttore Risorse Umane di IBM Italia. Il reverse mentoring focalizzato sulle donne, per esempio, ha aiutato i senior manager di sesso maschile a rompere i paradigmi e ad abbandonare pregiudizi inconsapevoli.
“Ci siamo accorti che in azienda i senior leader uomini non prendevano in considerazione le colleghe appena rientrate da una maternità per incarichi di maggior responsabilità che avrebbero implicato spostamenti in altre città o all’estero, anche come gesto di sensibilità verso il ruolo di madre appena intrapreso”, racconta Temporiti. “Le donne che hanno fatto parte di questo programma, invece, hanno dichiarato di sentirsi escluse a priori da opportunità di crescita che implicavano spostamenti all’estero, ma di non aver mai esplicitamente dichiarato la loro non disponibilità”.
Interessante anche il reverse mentoring che ha messo a confronto la popolazione senior con quella Lgbt. “Per i dipendenti appartenenti a queste comunità è stata un’opportunità per discutere in modo trasparente e aperto delle problematiche che si affrontano in azienda”, aggiunge il Direttore Risorse Umane di IBM Italia, “comprendere come lavorare con la percezione di chi non ha familiarità con i temi che riguardano tipicamente questa comunità di persone”. Ma nella multinazionale dell’informatica il reverse mentoring viene usato anche per accelerare il processo di integrazione tra dipendenti in caso di acquisizioni di società con culture diverse da quelle della casa madre.

A ognuno il suo programma
E i costi? In IBM tutto è fatto in casa, l’unico costo da mettere in conto è il fattore tempo. Ci sono programmi di reverse mentoring aperti e alcuni più strutturati. “Abbiamo un portale in cui chi vuole fare il mentor si può candidare e il mentee ha la possibilità di cercare il profilo del mentor ideale per lui all’interno della nostra community internazionale, oppure può fare un post per cercarne uno con un determinato tipo di esperienza alle spalle e il match fra domanda e offerta si crea in automatico”, precisa Temporiti. “Ma abbiamo anche un approccio più strutturato. Per esempio quando l’azienda si rende conto di certe necessità stabilisce un programma di reverse mentoring ad hoc volto a rompere paradigmi e creare opportunità di crescita. Del resto abbiamo notato che chi aderisce ai programmi di reverse mentoring accede più velocemente alle opportunità di crescita offerte dall’azienda”, conclude la manager.

Il progetto di ABB per unire generazioni diverse
Anche ABB Italia, multinazionale leader nelle tecnologie per l’energia e l’automazione, ha iniziato a interrogarsi sull’impatto che l’invecchiamento demografico avrà all’interno dell’azienda, specie alla luce dell’innalzamento dell’età pensionabile. Così nel 2014 l’azienda ha lanciato il progetto Generazioni al lavoro collegandosi al progetto AiM (Age Management in Milan), finanziato dalla Provincia di Milano e svolto in collaborazione con Istud e l’Università Cattolica.
“Siamo partiti con il fare un’analisi dei bisogni dei nostri dipendenti attraverso una survey interna per vedere come il personale rispondeva alle diverse voci a seconda dell’età di appartenenza”, ricorda Silvia Parma, HR Director della filiale italiana dell’azienda, che poi aggiunge: “Abbiamo avuto un grande riscontro visto che all’iniziativa ha aderito il 55% dei dipendenti”.
Dati che poi sono stati oggetto di riflessione attraverso focus group organizzati dall’azienda che hanno coinvolto più di 100 persone, con popolazioni diverse per età anagrafica e con l’obiettivo di compiere un approfondimento di tipo qualitativo, a valle di quanto emerso dalla survey. “Nell’operazione siamo stati supportati dai docenti dell’Università Cattolica di Milano che ci hanno aiutato a effettuare una lettura obiettiva dei dati raccolti”, racconta l’HR Director di ABB Italia. Il passo successivo è stato quello di andare a lavorare in particolare su alcune aree della survey di interesse per i lavoratori: work-life balance, stabilità e carriera, benessere psico-fisico e soddisfazione/ coinvolgimento. Ne sono nate diverse iniziative tra le quali il progetto pilota di reverse mentoring partito lo scorso febbraio con l’aiuto di una società esterna.

Il confronto fa crescere l’azienda
Nove sono state le coppie di mentor, senior sopra i 50 anni, e mentee, junior sotto ai 34 anni, coinvolte nel programma che terminerà a luglio. Obiettivo: costruireoccasioni di scambio di esperienze e conoscenze tra generazioni.
“Abbiamo individuato queste persone su base volontaria tra coloro che avevano partecipato alla survey per avviare una prima edizione di quello che speriamo possa diventare un progetto consolidato”, chiarisce Parma. “Ci aspettiamo almeno quattro incontri di coppia nell’arco di circa sei mesi che saranno organizzati liberamente dai colleghi convolti a cui si aggiungono quattro incontri in plenaria facilitati dalla consulenza esterna”. In questo caso l’azienda ha deciso di non fare un reverse mentoring centrato sullo scambio di competenze di ruolo, ma focalizzato su uno scambio di esperienze e competenze tra generazioni diverse. “L’intento è quello di attivare un confronto su come le diverse generazioni affrontano i temi emersi dalla survey, tra i quali il senso di appartenenza all’azienda, l’approccio al lavoro o temi più ampi quali le competenze digitali”, completa Parma. Un momento di arricchimento reciproco su temi personali e di lavoro, insomma, da cui il management si aspetta nasca poi anche un arricchimento per l’azienda. “Ogni anno assumiamo molti giovani neolaureati ed è evidente il divario di valori, approcci e competenze tra generazioni. Unire le visioni e i desideri di popolazioni così diverse non può che portare benefici ai colleghi in primis e alla nostra azienda. E poi è un modo nuovo per far comprendere a tutti l’importanza di tenersi aggiornati, di conoscere e formarsi in continuazione, di comunicare in modo adeguato anche con le giovani generazioni”, dice Parma. Che poi conclude: “Ma pure per far conoscere meglio ai Millennial quali sono i valori aziendali, comprendere le logiche di business, la strategia e avere una visione ad alto livello dell’organizzazione, accompagnandoli così nella loro crescita professionale”.

Il nuovo fronte: i colletti blu
Per ora le poche imprese italiane che hanno avviato programmi di reverse mentoring hanno coinvolto prevalentemente dirigenti, quadri, impiegati e nuovi ingressi junior, “ma ora l’invecchiamento della popolazione inizia a vedersi anche tra i colletti blu”, avverte Ripamonti. “In questa fetta di risorse il problema è ancora più eclatante perché o si decide di rimuoverli dalla produzione nel momento in cui ci si accorge che non hanno adeguati skill per stare al passo con le nuove tecnologie produttive e si riconfigura il loro ruolo in azienda, oppure si deve mettere mano all’organizzazione del lavoro, ristrutturandola completamente per tutelare anche dal punto di vista fisico questo target di lavoratori”. Ma il Fattore V colpisce anche i macchinari delle nostre imprese, come ha ben fotografato Confindustria, nella relazione presentata il 27 gennaio 2016 che snocciola dati sconfortanti. Tra le sue pagine infatti si legge che, rispetto alle rilevazioni del 1996 e del 2006, cresce nelle aziende nazionali la quota di macchinari con un’età superiore ai 20 anni, arrivata ormai al 27% del totale. Mentre la quantità di macchine nuove e più efficienti, con meno di cinque anni di età, si èdimezzata. Una scarsa innovazione legata a doppio nodo all’incertezza degli imprenditori sul futuro, verissimo, che però rischia di pesare come un macigno sulla produttività. Ma se su questo fronte il governo, con la legge di Stabilità 2016, ha varato il Superammortamento al 140%, che dovrebbedare una spinta agli investimenti in macchinari, sul fronte della gestione delle risorse senior e dell’upgrading delle loro competenze, le imprese dovranno fare da sole. Un banco di prova complesso che non possono dribblare ancora per molto. Pena la fuoriuscita dal mercato.

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