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welfare aziendale

Ascolto dei dipendenti e collaborazione col territorio, verso un nuovo welfare aziendale

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Trasformare il welfare aziendale da strumento verticale a misura orizzontale, articolata sul territorio. È questo l’auspicio emerso dalla presentazione del secondo Rapporto Censis-Eudaimon su welfare e lavoro tenutasi a Milano il 21 marzo 2019. Relatori e aziende erano concordi: bisogna sganciarsi da un welfare ‘paternalistico’, dove è l’impresa a decidere di che cosa hanno bisogno i lavoratori, per un approccio improntato all’ascolto e alla collaborazione con le realtà locali.

La misura, insomma, va svecchiata. Come? Favorendo l’aggregazione delle aziende a livello territoriale, soprattutto quelle medio-piccole: in questo modo, mettendo insieme le competenze e le risorse economiche, riusciranno a mettere a punto nuove soluzioni che sappiano intercettare sia le necessità dei dipendenti sia quelle della comunità.

Luca Pesenti, Docente all’Università Cattolica di Milano, è realista: “In Italia l’integrazione del welfare aziendale sul territorio non esiste. Bisognerebbe andare verso coalizioni territoriali di imprese e costruire distretti di welfare”.

A portare una testimonianza positiva è stato il Comune di Milano, da tempo impegnato nella promozione del lavoro agile e di politiche di bilanciamento vita-lavoro. A spiegarlo è stata Giuseppina Corvino, funzionaria di Palazzo Marino: “Nella nostra città non tutte le periferie sono uguali e nemmeno tutto il centro lo è. Per questo stiamo provando ad avviare collaborazioni tra grandi aziende e realtà più piccole per sviluppare più modelli di welfare territoriale che sappiano adattarsi alle varie aree della città e ai relativi bisogni”.

Un ambito di applicazione sarebbe per esempio quello dell’assistenza agli anziani, come ha puntualizzato Ermanno Cova della Cisl. “Oggi la questione è lasciata alle Rsa, le Residenze sanitarie assistenziali, che sono insufficienti, e al badantato: le famiglie sono abbandonate ed è qui che dovrebbe inserirsi il welfare orizzontale”.

Secondo Pesenti, però, uno dei motivi per cui questa integrazione con la realtà locale manca è da attribuire al fatto che, per molto tempo, il welfare aziendale è stato guardato con sospetto. La paura era che andasse a erodere il welfare pubblico. Il motivo, secondo il docente, sta nel fatto che in pochi sanno cosa sia di preciso il welfare aziendale: secondo il Rapporto Censis-Eudaimon ne è consapevole solo il 17,6% dei lavoratori intervistati. E il dato è in diminuzione rispetto agli anni precedenti, il che dimostra la confusione che si è generata attorno all’espressione.

Eppure misure del genere sono sempre più presenti nei contratti: il 46% di quelli attivi a novembre 2018 le prevede (+15,4% rispetto al 2017). E chi ne fa uso ne è soddisfatto: otto lavoratori su 10 tra i beneficiari intervistati hanno espresso un giudizio positivo, il 56% persino “ottimo”. E operai e impiegati, le categorie tradizionalmente più restie a scambiare gli incrementi retributivi con servizi, stanno cambiando idea.

Come sottolineato dall’Amministratore Delegato di Eudaimon, Alberto Perfumo, e dal Responsabile Politiche Sociali di Censis, Francesco Maietta, il welfare aziendale è un beneficio sociale netto per tutti, aziende e lavoratori. Secondo Lorenzo Federici di Snam e Andrea Mazzini di Credem, per le imprese il welfare è un modo per fare employer branding, quindi per farsi conoscere anche all’esterno grazie alle buone pratiche messe in atto all’interno.

Andrea Peduto di Edison ricorda che concedere alcuni benefici aumenta anche la produttività: con lo Smart working, per esempio, i pendolari possono sfruttare il tempo trascorso sui mezzi di trasporto. Per Maurizio Tosi di Michelin fare welfare significa ascoltare il proprio personale: “È l’unico modo per capire davvero cosa vuol dire essere un dipendente di quella azienda”.

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