Competenze per il cambiamento
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A 51 anni suonati osservo la carriera professionale di mio padre alla mia stessa età, curriculum che ho seguito con attenzione perché rappresentava per me un modello, un bravo padre e un manager amato dai propri collaboratori.
E perché la vicinanza con il suo lavoro mi ha consentito di frequentare ambienti e contesti simili.
Dopo una formazione scolastica di tipo tecnico e i primi lavori da ‘tecnologo’, venne assunto alla Necchi di Pavia, specializzata in macchine da cucire, quando l’azienda era al culmine del successo.
Da quella esperienza iniziò a trasformare le sue competenze da esperto di prodotto a gestore di processi produttivi. Partecipò all’avventura di un’azienda che, dall’inizio del secolo, era diventata una potenza nella costruzione e commercializzazione delle macchine da cucire per uso domestico.
Il tempo di sviluppo di questo importante attore industriale italiano è molto significativo, perché dalla prima esperienza di fonderia della Necchi, in cui si costruivano i corpi metallici delle macchine, all’introduzione dell’elettronica, trascorsero almeno 50 anni, se non di più.
Mio padre, a metà degli Anni 70, giovane rampante e ambizioso, era già passato a una multinazionale americana, in qualità di Direttore di Produzione.
L’avvento dell’automazione industriale, della robotica, degli impianti automatizzati era l’attualità. Si trovò a dirigere una fabbrica completamente automatizzata in cui le operaie, in precedenza addette alla produzione manuale, erano diventate ‘assistenti alle macchine automatiche’.
Il cambiamento di competenza era epocale. Mi spingerei a dire che era culturale, perché la relazione con le macchine stava cambiando radicalmente.
Prima, in quell’azienda, erano gli esseri umani ad assemblare pezzi elettromeccanici, saldare, fare prove di taratura e qualità. Con i nuovi impianti, sarebbero state le macchine a svolgere tutte quelle operazioni.
Gli operai si ritrovarono a diventare esperti di automazione. Dovevano capire perché le macchine si fermavano, dov’erano gli intoppi nel passaggio dei pezzi, come interrompere un ciclo, a cosa stare attenti per garantire gli standard di sicurezza richiesti. Le operaie si adeguarono.
Non fu un passaggio indolore. Il rapporto tra uomini e macchine è sempre stato, lo sappiamo bene, connotato da ambivalenze, andando dai grandi amori agli odi acerrimi.
Un ruolo importante lo svolse la realtà che, com’è evidente a ciascuno di noi, non fa sconti a nessuno. Chi non si adeguò rimase tagliato fuori. Una parte importante però fu giocata dalla formazione. Mi ricordo molto bene che mio padre organizzò tantissima formazione e le operaie vi parteciparono.
Il risultato fu il mantenimento della maggior parte dei posti di lavoro e una transizione abbastanza ‘incruenta’ verso il nuovo assetto produttivo.
Alla fine, molte persone si resero conto che l’assistenza a una macchina automatica era un lavoro interessante e non alienante, come stare seduti tutto il santo giorno davanti a una pressetta a ginocchiera o a una saldatrice al plasma.
L’esperienza di lavoro di mio padre, anche per sua stessa ammissione, fu quindi caratterizzata da un solo profondo e importante mutamento, che lo condusse alla Direzione Generale, a un ruolo di management internazionale, cavalcando l’introduzione dell’automazione industriale.
Ai suoi 50 anni si vedeva ormai all’akmé della carriera e poteva amministrare un successo professionale che l’aveva collocato tra i manager più importanti della multinazionale.
Oggi, può darsi che le storie di vita di alcuni di noi siano simili a quella di mio padre, ma ho l’impressione, intervistando molti manager, operai e professionisti, che il ritmo del cambiamento sia aumentato vertiginosamente.
Non è più neppure paragonabile a quello di quattro decenni fa. Alla mia età si è chiamati ancora a cambiare, non sempre in modo progressivo. Spesso dobbiamo fare salti notevoli.
L’ICT sta facendo sentire sempre più la sua influenza sul cambiamento e il fenomeno dello skill shortage ne è naturale conseguenza. La domanda più urgente riguarda la formazione tecnica, chiaramente, ma pone interrogativi importanti a chi si occupa, come me, di comportamenti organizzativi.
Qual è il futuro ruolo della formazione rispetto al tema “attitudine al cambiamento”? Come ci confrontiamo con i tempi e i ritmi della macchina? È ragionevole ‘competere’ –appunto– con le macchine o dobbiamo trovare il nostro modo, propriamente umano, per interpretare il cambiamento?
Di fatto, cambiare, adattarsi, riflettere in modo creativo e consapevole sono competenze tipicamente umane. Come formare e allenare queste competenze è la sfida di oggi.