La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Dalla gerarchia alla partecipazione. Le organizzazioni vanno ripensate

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Dal paradigma ‘fordista’, fondato su una gestione burocratica e gerarchica dell’organizzazione, a quello ‘post fordista’, che presenta un abbassamento delle gerarchie e una centralità della conoscenza, per arrivare al modello ‘cellulare’, nel quale le imprese tendono a ridurre l’organizzazione seguendo i principi guida della coopetizione e dell’autogoverno. È questa l’evoluzione che, negli ultimi anni, ha modificato le logiche di organizzazione del lavoro e ne ha cambiato gli strumenti di governo, se non altro a livello teorico.
Dal controllo alla responsabilità, dalla competizione alla collaborazione, dalla segretezza alla condivisione, dalle strutture organizzative immutabili all’organizational design, dagli Yes Men alla valorizzazione delle diversità. Quanta di questa teoria si traduce oggi in pratica manageriale? Quante delle nostre imprese stanno recependo il nuovo paradigma e come hanno intenzione di porlo inessere? Che ruolo, infine, dovranno giocare i leader del futuro?
Su queste domande Sviluppo& Organizzazione ha organizzato la tavola rotonda dal titolo Organizzazioni senza gerarchia che si è tenuta il 18 gennaio 2016 per confrontarsi con alcuni HR director e responsabili organizzazione di aziende medio-grandi.

 

Ridefinire i ruoli all’interno dell’organizzazione
Negli ultimi anni le aziende non hanno fatto che innovare. I prodotti, il business. Come mai allora i modelli organizzativi, in molti casi, sono rimasti gli stessi? “È ora di cambiare rotta – dichiara in apertura il professor Vittorio D’Amato –; perché i vecchi modelli gerarchici non sostengono adeguatamente i nuovi business. Oggi serve aumentare l’auto- responsabilità delle persone che lavorano nelle organizzazioni. Solo così i singoli, costretti a confrontarsi davvero con la realtà lavorativa, possonoacquisire le giuste competenze per trovare soluzioni e prendere decisioni rapidamente, anticipando il mercato piuttosto che rincorrerlo”.
Dalla definizione classica di ‘management’ – “ottenere risultati attraverso le persone” – sarebbe dunque preferibile passare, ribaltando il paradigma, a quella più moderna che prevede di “fare il possibile affinché le persone lavorino al meglio e, di conseguenza, portino il risultato”.
“Reinventare il management vuol dire – continua D’Amato – ripensare il modo con il quale si prendono le decisioni; il sistema con cui circolano le informazioni e la conoscenza, nell’ottica di una sempre maggiore trasparenza”.
E delle gerarchie cosa ne facciamo? “Le gerarchie esisteranno sempre. Importante è stabilire ‘quali’ gerarchie. Esistono quelle di posizione, quelle che derivano dal possesso di competenze tecniche, infine quelle di decisione. Nel vecchio modello organizzativo il ‘capo’ è colui che decide in virtù della posizione che ricopre, ossia delle competenze tecniche che possiede. Nel nuovo modello la coincidenza fra le tre forme di gerarchia non sussiste. Il manager non deve avere maggiori competenze tecniche dei propri collaboratori; anzi, deve instillare in loro il dubbio. Chiedere alle persone ‘perché’ si è giunti a una determinata decisione significa dare loro la possibilità di sbagliare all’interno di una sorta di ‘palestra manageriale’. Il leader non è, dunque, colui che controlla e decide, ma chi guida gli altri nel prendere la decisione migliore”. E il cambiamento non consiste tanto nell’abolizione dei ruoli gerarchici, quanto nella ridefinizione del ‘come’ gli stessi vengono esercitati.

 

 

Il leader è un facilitatore di dialogo e di relazioni
Eppure le organizzazioni di oggi continuano a cadere nella tentazione di riconoscere come capo la persona con maggiori competenze tecniche. Ma cosa accade quando si ha a che fare con team dove si manifesta conflittualità? Chi stabilisce quale dei capi ha maggiori competenze (ovvero ragione)?
Per Marco Buti i collaboratori devono possedere competenze tecniche forti. Il ruolo del manager è quello di esercitare le competenze relazionali che servono a organizzare il lavoro e a far sì che le persone (della stessa area professionale o di aree professionali diverse) non entrino in conflitto. Stando all’esperienza vissuta nella sua azienda – la A. Celli Nonwovens – il leader è un facilitatore di dialogo e di relazione tra persone; sia in senso orizzontale sia in senso verticale.
“Gli imprenditori della A. Celli, messi a conoscenza di un problema di relazione tra l’area commerciale e quella tecnica – fonte di diffusione di disagi anche in altre aree –, hanno deciso di chiamare me, uno psicologo, percercare di porre un freno alle conflittualità in corso. La soluzione che ho proposto e messo in atto, in qualità di direttore operativo e responsabile del personale, è stata quella di eludere, nel middle management, ogni preminenza fra ruoli, promuovendo, invece, fra le risorse, uno scambio fondato sull’ascolto, sulla condivisione e su una relazione di reciproco supporto. Oggi abbiamo un gruppo armonico e performante, all’interno del quale ci si confronta con l’obiettivo di fare il possibile per incontrare le aspettative del cliente”.
Certo, tutto ciò è possibile in una piccola azienda come la A. Celli – sono circa 200 i dipendenti – e solo se le persone possiedono le competenze e la motivazione necessarie al raggiungimento dei risultati. “Affinché si verifichi questa condizione occorre – conclude Buti – lavorare sulla ricerca dei profili adeguati, sia quanto a ‘saper fare’ sia quanto a ‘saper essere’, e che il manager si determini a una continua promozione e manutenzione interna dei criteri di buona relazione fra le risorse umane; serve, infine, porre in essere tutte le leve gestionali, non soltanto quelle economiche, affinché la motivazione sia sempre alta”.

 

 

Il manager è l’alter ego dell’imprenditore
“Quando entrai nella divisione televisiva della Fininvest, più di vent’annifa – racconta Andrea Delogu –, mi chiesero di coordinare diversi gruppi di lavoro che, se non fatti lavorare in parallelo, avrebbero finito per rimanere delle monadi. Anche io non avevo competenze tecniche specifiche, ma possedevo una visione a 360 gradi dell’azienda. È questa visione olistica, insieme alla costante maintenance delle gerarchie e a un impianto burocratico (in senso weberiano) fondato sull’ordine, che ancora oggi ci permette di ottenere la corretta sinergia tra le diverse unità produttive”.
La deriva pericolosa a cui stiamo assistendo nelle imprese – senza distinzioni tra pubblico e privato – ha a che fare con quella che Delogu definisce la “tracimazione dei ruoli”. “I manager devono essere l’alter ego degli imprenditori; non tanto in senso civilistico, ma proprio nel senso della figura retorica latina. Devono preoccuparsi non solo della redditività, ma di realizzare al meglio i prodotti che gli vengono affidati, creando valore per tutta l’azienda. Se nelle organizzazioni non ci sono regole effettivamente osservate e gerarchie funzionanti, si rischia di svolgere mestieri e ruoli non propri, con problemi a cascata per tutta l’azienda”. Il modello che Delogu prende in prestito dal passato e continua a ritenere valido per le organizzazioni moderne è, dunque, quello che presenta una gerarchia geometri-camente definita e rappresentabile con la forma della piramide.

Contro le gerarchie servono partecipazione e trasparenza
Contrariamente a chi lo ha preceduto, il General Manager di Sebia, Massimiliano Boggetti, ritiene che le competenze tecniche, o di settore, siano un importante aiuto ai manager per prendere le giuste decisioni. Le gerarchie non devono sparire, a suo avviso, ma essere ridimensionate. “Occorre un modello che sia a metà strada tra la piramide tracciata da Delogu e le organizzazioni matriciali spinte”.
La vera sfida oggi, per i manager, secondo Boggetti, non è tanto quella di eliminare la competizione in azienda – considerato che le aziende sono ferme e i percorsi di carriera bloccati –, ma mantenere alta la motivazione dei collaboratori insistendo su altre leve oltre a quella economica. “Affinché le persone siano motivate occorre lavorare sull’orientamento all’obiettivo. Significa, cioè, aiutare i collaboratori a comprendere la strategia aziendale e quanto ciascuno di loro, con il proprio lavoro, contribuisca in maniera significativa al raggiungimento di tale strategia”.
Si tratta allora di stimolare la partecipazione dei collaboratori, di renderli azionisti in prima persona. Ma la partecipazione richiede di lavorare per aumentare la trasparenzadel management sui risultati e sugli obiettivi nei confronti dei propri collaboratori. “In questo modo – conclude Boggetti – le gerarchie non avranno più senso di esistere”.

Il modello organizzativo discende dal business
Secondo Massimiliano Pozzi non esiste una ricetta valida per tutte le imprese. A fare la differenza è la tipologia di business. “Se l’azienda riesce a raggiungere i migliori risultati pur conservando le gerarchie perché abolirle?”, si chiede l’HR Director di Kone Industrial. L’organizzazione dipende allora, in questa visione, dai valori e dalle strategie aziendali che si scelgono.
“La maggior parte dei Millenial preferisce lavorare in ambienti collaborativi e che considerano centrale la persona. Ma esiste anche chi ‘performa’ meglio in ambienti gerarchizzati. La gerarchia non è, dunque, un male a priori. Certo, va utilizzata con moderazione e in base alle scelte strategiche”.
C’è poi da dire che organizzazioni troppo gerarchiche spesso hanno difficoltà ad attrarre i talenti. “In questi casi – conclude Pozzi – occorre giocare la partita insistendo su altre leve, perché non possiamo permetterci di perdere i talenti”. Si dice d’accordo D’Amato, che identifica nel coinvolgimento della persona una delle leve più giusteper tenere alta la motivazione e contribuire a realizzare la strategia. “Il ‘Why’ condiviso, ossia la co-creazione dei valori, della mission, della strategia e della storia aziendale, è un elemento che oggi fa davvero la differenza e che può dare risultati migliori di quelli che si ottengono con gli incentivi economici. Ma se tutto viene co-creato, allora il ruolo dei capi è quello di coordinare e di inserire il lavoro all’interno di un contesto globale che si rifà a una visuale più ampia. Poi ci sarà sempre chi decide, ma oggi si ha la possibilità di prendere decisioni collegialmente, ascoltando e valorizzando il contributo personale e diversificato di ogni persona che compone l’organizzazione”.

Lo storytelling come strumento di motivazione
A proposito di co-creazione interviene anche Marta Signore per raccontare come nella sua azienda si sia puntato sullo storytelling allo scopo di aumentare la partecipazione delle persone alla strategia aziendale. “In Koelliker abbiamo deciso di lavorare, prima di tutto, sulla coerenza; di storie e visioni. Per farlo, abbiamo dedicato grande attenzione alle relazioni e all’accountability così da trasferire a cascata gli obiettivi comuni e rendere possibile la delega”.
Il progetto One week in your shoes ne è un esempio. “Mettersi nei pannidell’altro – racconta Signore – aiuta ad approcciarsi ai colleghi con maggiore consapevolezza dei loro obiettivi e delle criticità che compaiono nel lavoro quotidiano. Serve anche a trovare soluzioni nuove ai problemi che si presentano e ad aumentare la fiducia tra collaboratori. È un modo per responsabilizzarsi e dunque abolire le gerarchie”.
Un’altra iniziativa che contribuisce ad arricchire la condivisione delle competenze è il progetto Time out Meeting rivolto alle prime linee, che consiste nel costruire gli spazi e i tempi per mettere in comune tematiche e criticità di ogni funzione, alimentando la ‘contaminazione’ e la fiducia nelle possibilità di trovare soluzioni, e supporto da parte dei colleghi, manager di specialità diverse dalla propria.

Prima di tutto torniamo alle basi
Che le gerarchie possano essere di intralcio al business è, in alcuni casi, verissimo. Ma considerare il concetto di gerarchia negativo in sé e per sé non ha senso. È questo il parere di Stefano Setti, HR business partner di Vodafone. Ma prima di abolirle o di interrogarsi sulle fattezze dei leader del futuro bisogna tornare alle basi. “Lavorare sui processi, sui ruoli e sul matching tra ruoli e persone. Sviluppare un sistema di performance management e valorizzare i meriti, le competenze, incentivare l’apporto personale con un sistema premiale ad hoc. E poi ripensare il rapporto di lavoro alla luce delle tecnologie oggi a disposizione e delle esigenze dei dipendenti e delle loro famiglie”.
Setti si domanda – riprendendo le parole del Ministro Poletti – se abbia ancora senso ‘pagare’ le persone per le ore lavorate o se invece non sia meglio retribuirle per il raggiungimento dei risultati.
“Sulla base di ciò è oggi necessario rivedere la relazione tra aziende e lavoratoriInnovativo sarebbe dare alle persone la possibilità di riparametrare, giorno dopo giorno, il proprio contratto nella logica della flessibilità e in base alle competenze che si acquisiscono”.
Lo smart working risponde a questo bisogno e Setti è convinto che la sperimentazione nelle imprese debba andare avanti con il favore delle istituzioni.

Allenare nuovi comportamenti per adattarsi al contesto organizzativo
Lo smart working è uno dei tanti temi caldi all’attenzione delle organizzazioni. Ma affinché lo si possa mettere in pratica occorre assumere nuovi comportamenti che rispondano a un contesto mutato. “Perché a cambiare l’effetto dei comportamenti è sempre la situazione”, interviene Roberto Degli Esposti, Managing Partner di Perfomant by Scoa, società che affianca le aziende nella loro trasformazione partendo dall’abilitazione di nuovi comportamenti.
“Qualsiasi comportamento, gerarchico o meno, non è né buono né cattivo: semplicemente funziona oppure no. E funziona in base al contesto nel quale lo esercitiamo”. Non esiste, quindi, una ricetta valida per tutte le imprese.
“Certo è – continua degli Esposti – che all’interno dei team ognuno può essere allenato, a seconda della situazione che si presenta, a svolgere il ruolo di leader o follower. In questo senso decadono le gerarchie, ma solo se è utile a sbloccare le competenze dei singoli per raggiungere i risultati”.
Il problema, secondo Degli Esposti, è che spesso ci si dimentica che le ‘risorse umane’ sono persone, con un vissuto diverso. “Valorizzare la diversità è uno degli esercizi più complessi e affascinanti che si possano svolgere all’interno delle organizzazioni. Non per forza questo significa abolire le gerarchie. Lavera domanda che dobbiamo porci è ‘come’ coniugare all’interno della medesima azienda le gerarchie e l’assenza delle stesse”.

Manteniamo le gerarchie, ma ripensiamole!
A rispondere alla domanda di Degli Esposti è il professor D’Amato, il quale individua, sul finale di tavola rotonda, una serie di invariabili che dovrebbero caratterizzare le moderne organizzazioni, a prescindere dalla permanenza o meno delle gerarchie. In primo luogo, la logica della partecipazione e del coinvolgimento, che emerge in quasi tutte le esperienze raccontate e parte dal presupposto che è meglio avere a disposizione un ventaglio di opinioni diverse rispetto a un manipolo di Yes Men. “Si tratta di passare da una competizione di tipo interno – tra team o collaboratori che partecipano allo stesso team – a una competizione rivolta verso l’esterno (il mercato), la quale procede di pari passo con l’aumento della collaborazione in seno all’azienda e ai team.
In secondo luogo, sarebbe auspicabile passare dal modello del controllo a quello del coordinamento. In questo, il ruolo del leader nei panni di guidaallenatore è fondamentale.
E ancora, occorre promuovere all’interno delle aziende la cultura della condivisione della conoscenza e delle competenze; elemento che permette di cogliere le sfumature e di smussare le barriere di ruolo.
Importante è anche prestare attenzione alla personalizzazione dei contesti, che vanno disegnati tenendo conto delle esigenze di chi vi lavora e del business di riferimento.
Per finire, il tema dell’ascolto è fondamentale. Solo re-intrepretando i rapporti alla luce di una negoziazione continua tra le parti si genera la flessibilità necessaria a produrre cambiamento, innovazione e, dunque, crescita.

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