La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

deboli di empatia

Deboli di empatia

, , , ,

Va di moda la leadership empatica, qualunque cosa l’espressione voglia dire: attenzione benevola, compassione partecipata, atteggiamento comprensivo, paternalismo illuminato, cameratismo, superamento dei limiti tracciati dalle differenze di ruolo, riconoscimento dell’altro come statuto sociale e di importanza offerto, buon umore, ecc.

Quando ci sono tante parole in gioco, e con sfumature così diverse, il senso equivoco che trascinano non può essere molto decisivo per orientare i comportamenti. Nascono così teorie improvvisate, come spesso tante altre nel menù manageriale up-to-date, che finiscono per screditare alla lunga anche le migliori intenzioni.

Per non parlare dei ‘guru empatici’ che proliferano nella confusione, estraendo dal cappello ricette pronte all’uso per servire sul mercato manager empaticamente preconfezionati. Bisogna essere empatici a tutti i costi, o forse, almeno, sembrarlo. Ci sono mode che passano e altre che ritornano, magari con nomi diversi, rivestite di storytelling così da beneficiare delle nuove propensioni narrative e di rappresentazione di manager mediatici.

deboli di empatiaUn tempo sarebbe forse bastato parlare di attenzione, di buon senso nei rapporti, persino di buona educazione e di rispetto. Ma dichiararsi empatici fa tanto glamour, avvicina le distanze, mettendo per altro in rilievo la loro esistenza a cui si cerca un compenso. Che sia sostanza o forma, è questione da lasciare ai critici di professione, qualcuno che non avrà mai la soddisfazione di cogliere lo spirito dei tempi, così da trovarsi sempre marginale rispetto alle nuove rotte.

Che il chiacchiericcio sul tema stia debordando, sull’onda di approssimazioni neuroscientifiche confezionate all’uopo, è solo uno dei tanti cascami con cui, a fronte della crisi evidente del mestiere nell’interpretare le trasformazioni profonde che incalzano la professione, si tenta di rimediare alla mancanza di fondamentali che non si possono improvvisare.

Partiamo, dunque, da quello che sembra essere oggi il punto intorno a cui si intrecciano tutti i tentativi di comprensione di quello che servirebbe per recuperare credibilità e senso nelle organizzazioni: vale a dire il fattore umano, le risorse a disposizione, con le loro aspirazioni, la disponibilità, il carico di competenze e le troppe frustrazioni ricorrenti.

La storia delle imprese, e della cultura prodotta o proposta sull’argomento da una abbondante letteratura, nella voglia di sistematizzare il complesso di acquisizioni sedimentate in tema di utilizzo ottimale dei collaboratori e dipendenti, ha dato vita ad assetti razionalizzanti che hanno potuto contare su una molteplicità di strumenti pragmatici e su un’altrettanta profluvie di modelli gestionali ancorati a processi e procedure standard.

deboli di empatiaSappiamo ad abbondanza come regolare funzioni, rapporti gerarchici, performance operative, schemi di ordini di servizio, organigrammi di primo, secondo, ennesimo livello, politiche di valutazione, ecc., ma abbiamo perso per strada la consapevolezza che nulla di tutto questo armamentario di tipo ‘assirobabilonese’ ha significato, se sottratto al suo perno di rotazione: gli uomini che all’interno ci vivono, lavorano, pensano e così spesso soffrono. Anche se, a peggiorare poi la situazione, interviene sovente una pratica retorica altamente destabilizzante, come è quella largamente praticata dai capi di predicare valori e principi di onnicomprensiva rilevanza a cui fa riscontro una modalità operativa e di comportamento del tutto controdipendente.

La distanza tra le dichiarazioni dei vertici e la realtà corrente in azienda, avvallata dalle forbici retributive crescenti, mentre illude con le parole, destabilizza con le scelte quotidiane, favorendo l’alternarsi di momenti di grande credito e fasi ben più lunghe di demotivazione.

E questo è il climax su cui prosperano poi le incomprensioni, le delusioni e il formarsi di quel terreno instabile in cui nascono esigenze di cambiamento incerto, alla ricerca di correttivi e di orientamenti meno rigidi, ma vissuti pur sempre come problematici. Impegnarsi a cambiare veramente non è operazione di maquillage, ma nessuno sembra disposto a rinunciare alla comfort zone, che garantisce sicurezza al vertice, solo perché i tempi sembrano richiedere altro.

Se proprio si deve, allora tanto vale arrotondare gli angoli, sforzarsi di sorridere e montare qualche azione esemplare di avvicinamento a quella che resta sempre una ‘controparte’. Così la spinta a trovare nuove soluzioni, più adatte ai tempi, ha aperto la stura a tutti quei tentativi di rimettersi rapidamente in gioco adottando con nuovi strumenti, meno datati e più all’onor del mondo e della scienza, una politica di appeacement sociale. La mitica ‘empatia’ è sembrata molto adatta allo scopo.

Veniva rappresentata come una presa di potere – per quanto limitato – e una legittimazione – sebbene in tono minore – di quel mondo dei sentimenti largamente ignorato nei vademecum della cultura manageriale. Ora tornava comodo sfruttare l’onda empatica per recuperare scampoli di relazioni finalmente umane da esporre nella vetrina dei comportamenti aziendali oggetto di revamping, nel tentativo di coinvolgere i dipendenti nella soluzione di crisi che, per altro, da loro non dipendevano.

Per carità, senza correre troppo però, perché il rischio di farsi male concedendo in eccesso era dietro l’angolo. Cosa si volesse dire con il termine ‘empatia’ restava confuso, ma rimandava certamente allo sforzo di regolare comportamenti e rapporti, in azienda, tali per cui l’autorità dei capi fosse meno asettica, l’interlocuzione tra le linee e con le persone meno formale, il clima più gradevole e caldo. Che questo venisse perseguito come un mantra che lasciava tutto nelle mani del capo lo sforzo di capire, di adeguarsi, e di decidere il come e il quando, ha prodotto spesso situazioni di segno contrario al previsto.

Una artificialità di contesti, per esempio, in cui era facile respirare la fatica di credere nel cambiamento e di dare per buono e serio un atteggiamento che non partiva da una valorizzazione reale dei bisogni e del vissuto dei dipendenti, ma semplicemente dal calcolo ancora una volta strumentale… di conquistarli meglio alla causa. L’empatia non può essere semplicemente uno strumento per un governo più efficace del proprio territorio professionale e di potere. Anzitutto perché non si genera a comando o seguendo un manuale del buon capo empatico. Se non si entra in consonanza con gli altri, se non si è in grado di sintonizzarsi sul vissuto degli altri fino a farlo diventare parte del proprio vissuto, non si produce empatia.

Risuonare è frutto di una pratica che consolida apprendimenti quasi sempre automatici e largamente inconsci, dipendenti dalla propensione e dall’esperienza nel sentirsi in connessione con gli altri, fino a condividere atteggiamenti, emozioni e gli stessi valori. Al pari di un diapason che vibra toccando corde invisibili, ma in attesa. Per sintonizzarsi, è necessario sapere che gli altri sono in grado di sentire e valutare quanto di quelle vibrazioni è autentico e quanto artificiale.

Intercettare diventa allora un predisporsi a condividere, spesso senza disporre di alcuna espressione verbale, abituandosi a cogliere segni, intuire sentimenti, fornire aperture gratuite. Modulazioni di frequenza su un apparato trasmittente e ricevente tarato sulla disponibilità di chi sta in relazione. Non si ha empatia se non si è disposti a ‘compromettersi’ su un piano che non può essere governato semplicemente dalla razionalità classica.

Anzi, l’empatia guida a recuperare una forma di conoscenza razionale che è tributaria della ricchezza dei sentimenti che la persona è riuscita a nobilitare fino al livello più completo di un sapere, insieme cognitivo ed emozionale. Un leader empatico non è un ‘piacione’, uno che si sforza di essere gradito a tutti i costi. Al contrario, è uno che mette in discussione tutto un apparato di sicurezze formali fino a capire quanto sia importante per lui entrare in un flusso di rapporti che, di per sé, non danno sicurezze automatiche, ma che conferiscono una ricchezza tale di cultura da facilitare l’uso di tutti gli altri strumenti che il mestiere mette a disposizione.

Il buon umore, così raro oggi nelle aziende, è uno dei frutti migliori dei climi empatici. Aiuta a vivere meglio e, di conseguenza, a lavorare meglio.

Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Cookie Policy | Privacy Policy

© 2019 ESTE Srl - Via Cagliero, 23 - Milano - TEL: 02 91 43 44 00 - FAX: 02 91 43 44 24 - segreteria@este.it - P.I. 00729910158
logo sernicola sviluppo web milano

Trovi interessanti i nostri articoli?

Seguici e resta informato!