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Due anni di legge sul lavoro agile: le sfide aperte dello Smart working

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Il termine Smart working è ormai entrato nel vocabolario comune, segno di un cambiamento che finalmente sta coinvolgendo le nostre realtà aziendali e non solo. In Europa modalità di lavoro flessibili sono regolate già da alcuni anni: l’Inghilterra, per esempio, ha per prima approvato la Flexible Working Regulation nel 2014, seguita da altri Paesi che hanno normato soluzioni di lavoro smart.

A livello europeo il Parlamento si è espresso nella risoluzione del 13 settembre 2016 (principio generale 48) dichiarando il lavoro agile uno strumento per favorire un miglior benessere sociale, una maggiore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e un rilancio demografico. In Italia diverse grandi organizzazioni hanno introdotto da tempo questa modalità di lavoro flessibile (Microsoft Italia addirittura dal 2006), ma è a partire dal 2017 che, grazie all’approvazione della Legge 81, il tema è entrato a pieno titolo nei dibattiti riguardanti la gestione delle risorse umane e l’innovazione dei processi organizzativi.

Spesso confuso con lo strumento del telelavoro, lo Smart working ha in realtà caratteristiche ben differenti: non è prevista infatti l’abitazione come sede fissa e prestabilita, gli orari di lavoro sono flessibili e concordati con il proprio responsabile ed è possibile per il lavoratore utilizzare i propri device tecnologici. Inoltre, se il telelavoro è un istituto nato con la precisa finalità di essere strumento atto a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, lo Smart working è prima di tutto un mezzo al servizio delle organizzazioni che genera miglior produttività e benessere, come i numerosi dati dimostrano.

Il miglior equilibrio tra impegni lavorativi e vita privata è così esito e non obiettivo principale del lavoro flessibile, anche se genera poi ricadute estremamente positive per i lavoratori in termini di benessere, con conseguenze tangibili anche per le aziende in termini di engagement e retention.

A due anni dall’approvazione della legge è possibile rilevare punti di forza e criticità di una normativa che ha avuto indubbiamente il pregio di preservare il principio fondante di flessibilità che caratterizza l’istituto dello Smart working il quale, non essendo stato concepito come una tipologia contrattuale, non prevede per esempio l’obbligo di consultazione o un accordo sindacale.

Le imprese stanno però segnalando come, nella definizione dei passaggi operativi, siano stati inseriti degli adempimenti burocratici che vanno nella direzione opposta all’utilizzo di uno strumento snello. In particolare l’obbligo di inviare le singole comunicazioni degli accordi individuali al Ministero del Lavoro e all’Inail è l’elemento ritenuto più oneroso non solo dalle imprese private, ma anche dal comparto pubblico (55% delle grandi imprese e il 78% delle Pubbliche amministrazioni appartenenti al campione di indagine 2018 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano).

A ciò si aggiunge che, con la legge di Bilancio 2019, il Legislatore ha deciso di prevedere l’obbligo, da parte delle aziende che intendono implementare lo Smart working, di dare precedenzaa mamme con figli fino ai tre anni di età e a genitori di figli con disabilità.

Questa scelta –al di là del fatto che dà allo strumento una forte connotazione di misura di conciliazione famiglia-lavoro che non gli appartiene– aggiunge un ulteriore elemento di complessità che rischia di portare le aziende a muoversi al di fuori del solco normativo verso soluzioni di flessibilità alternative, pur di non sottostare a questo vincolo che nulla ha a che fare con un processo di innovazione dell’organizzazione aziendale. Così, uno strumento nato con un forte carattere di flessibilità e semplicità, trova ora diversi ostacoli che rischiano di ridurne la spinta innovativa e di indurre le aziende a rinunciarvi.

L’articolo completo è pubblicato sul numero di Aprile 2019 di Persone&Conoscenze.
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