
Il digitale non ci rende liberi
digitale, libertà, memoria, tecnologie
Sembra prendere forma, oggi, un nuovo modello di lavoro in cui, con la scomparsa di tante routine demandabili alle tecnologie, si insedia un doppio movimento: le persone prima vivono un momento di euforia liberatoria, orientandosi sui segmenti nobili di certi mestieri, per poi sentirsi via via espropriate delle stesse competenze che quei mestieri erano in grado di dominare nel loro complesso e nelle loro finalità.
Perdendo la parte meno accattivante di un lavoro, paradossalmente si finisce spesso con il perdere anche il significato di quello che resta, testimoni di un’amputazione che toglie coerenza ai processi operativi e induce al sospetto che questo sia solo il primo passo.
L’invasione digitale ha questo di ‘anomalo’: non chiede né permesso né scusa, non conosce debiti né riconoscenze; semplicemente occupa gli spazi che si conquista rapidamente riducendo la fatica, aumentando i ritmi produttivi, offrendo la garanzia della prevedibilità e degli standard.
L’area riservata alle competenze personali, richieste per essere ancora utilizzabili, è spinta così a scalare livelli di progressiva complessità, liberando in basso molte delle operazioni classiche che richiedevano un tempo di apprendimento ricorsivo, quelle, per intenderci, che scandivano l’agenda quotidiana e occupavano la mente tra aspirazioni, controversie, alleanze, bisogni da soddisfare o sviluppi da inseguire.
Sparisce per dissoluzione un mondo che codificava una cultura lavorativa tutto sommato regolata, ancorché noiosa, offriva certezze e si poteva immaginare riuscisse a beneficiare della libertà finalmente acquisita con l’aiuto offerto dalla tecnica.
L’equivoco della libertà, soprattutto del tempo reso disponibile, come conquista e compensazione alternativa al vuoto generato dal dissesto degli assetti professionali, è ciò che ha animato le piste di ricerca più improbabili, nell’illusione che le cose riuscissero alla fine a ricomporre gli antichi equilibri tra il vecchio e il nuovo.
Il nuovo ruolo della libertà
Ma libertà per fare cosa, se quello che si sapeva fare oggi non serve più e quello che serve ora è fuori portata per molti? E poi, a cosa ricorrere per capire e orientarsi nella babele di ricette che si accavallano e coi punti di riferimento tradizionali che sfumano?
Cambiano gli stessi profili antropologici degli specialismi richiesti per fronteggiare le innovazioni accelerate, mentre la dimensione temporale che aveva scandito un mondo regolato perde l’ancoraggio rassicurante della ‘durata’, oggi sempre più puntiforme.
Cosa serve, in fondo, alla tecnologia per riprodursi in assenza di contradittori e con il solo obiettivo di funzionare? A ben riflettere quasi nulla di quello che ha scandito nel tempo le conquiste più umane: la dignità e il ruolo decisionale delle persone, la capacità di regolarsi sulla base di esperienze e relazioni, la possibilità di orientarsi nel mondo anche sulla base di aspirazioni ed emozioni, l’autonomia conquistata spesso a caro prezzo.
Nell’universo dominato dalla neutralità tecnologica sembra del tutto ininfluente la qualità e il peso del pensiero ‘pensante’, e tanto più, quindi, il corredo di sentimenti o di emozioni che accompagnavano in passato il quotidiano stare al mondo, quando il mondo che si presenta oggi non ha quasi più nulla a che fare con quello che aveva forgiato i vecchi comportamenti, le speranze e i timori ormai fuori corso.
L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di marzo-aprile di Sviluppo&Organizzazione.
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