La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Il valore del dissenso positivo

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di Pier Luigi Celli

Non sembrano esserci dubbi che viviamo tempi di culture semplificate, quando interessi e obiettivi non concedono spazi a troppi tormenti di pensiero, né a indugi che rischiano di rallentare la marcia di chi decide. Vale per i singoli, vale nelle organizzazioni.
“Sgomberare il campo” è oggi un must per chiunque abbia posizioni di capo con l’obbligo di performare nei tempi ristretti che società e mercato amministrano con crescente parsimonia.
Sgomberarlo dalle preoccupazioni superflue, dai perditempo in cerca di un ruolo nella rappresentazione, senza doti di arte ufficiale o di pedigree; dalla tendenza a pretendere di essere presi in considerazione, comunque, per il solo fatto di esserci. Governare, in ogni settore, oggi è diventato soprattutto uno sforzo titanico di semplificazione, di riduzione delle risorse che assorbono il pensiero, nel tentativo di renderlo più essenziale, meno disperso e (Dio non voglia) condiviso a tutti i costi, a prescindere. Un pensiero molto tecnico, impersonale; standardizzato. Si crea così – e si afferma – la logica imperante della razionalità strumentale che non nutre rispetto per le grandi finalità in grado di creare senso-collante per quelli che ‘sono comunque della partita’.
Si vince con poche idee, precise, battenti; con un apparato quantitativo a sostegno che dovrebbe fare giustizia della confusione di aspirazioni, sentimenti vaghi, riserve mal documentate; in grado, queste sì, di far perdere il filo dei progetti e vanificare gli sforzi per portarli a compimento.
Nasce e prende forma di stereotipo la figura del perditempo genericamente intellettuale: quello che non ha responsabilità vere e ama soprattutto discutere; qualcuno, insomma, che non ha capito la nuova aria che tira e quali sono le vere armi da usare. Un vero scarto, a voler essere benevoli, nel nuovo mondo in cui l’efficienza guida le danze e i risultati ravvicinati generano medaglie. Chi si ritaglia questa parte, magari perché non tutto di quello che viene proposto è così intelligibile o condiviso, deve prepararsi a una marginalità additata come irrilevante. In questo non è solo la politica che ha affinato modalità specifiche per segnare la distanza tra chi ha in mano i destini collettivi e quanti sono previsti solo adattarsi e convenire.
Le imprese, che l’aria dei tempi la sentono più di quanto non vogliano dare a vedere, hanno anche loro sviluppato apparati di riduzione degli spazi di interlocuzione reale, magari ampliando artificialmente quelli di informazione, dietro la cui pervasività si cela spesso il disegno di cercare il consenso più che il confronto; una forma più sofisticata di manipolazione che predispone a dettare temi, tempi e, possibilmente, anche risposte. Che sia, alla lunga, una scelta controproducente per la loro continuità e la loro tenuta, non sembra preoccupare: quando verrà a evidenza, il tempo si sarà occupato di cancellare tracce e responsabilità.
La scomparsa di una cultura condivisa va di pari passo con l’affermarsi di una coscienza rattrappita dei rapporti e del valore dei contributi socialmente scambiabili all’interno delle organizzazioni.
Sembra prevalere, più in generale, sia a livello di imprenditori sia a quello di manager, una piccola borghesia orientata al fare, al ‘darsi da fare’; dotata di uno sguardo ridotto rispetto ai grandi temi di uno sviluppo che pare interessarli solo per quello che gliene può venire entro un orizzonte di tempo ben definito. Manca uno spirito largo, una visione legata a progetti che anche li sovrastino e, soprattutto, una passione civile capace di muovere corde ben diversamente risuonanti rispetto a quello che si presenta solo come un modesto trepestio del quotidiano.

 

dissenso positivo
Non ci sono molte voci che si levino alte, che ragionino in grande, che propongano punti di vista diversi, magari discutibili. Ed è proprio qui uno dei nodi: non si discute più; le parole hanno perso la loro ricchezza e sono diventate pericolose se usate fuori dallo standard accreditato o dalle locuzioni di moda (magari inglese).
Perché mai dovrebbero nascere delle storie appassionanti in un deserto del pensiero e nella conformità di trame quasi tutte uguali? Ed ecco anche perché sarebbe importante ricreare gli spazi nei quali tornare a ragionare liberamente, togliendo a chi ha il gusto del rischio l’ostracismo di dire la sua.
Rischiare, oggi, sembrano farlo con maggiore determinazione i più giovani, quelli che non hanno rispetti storici da osservare e meno speranze da affidare a quanti, nei fatti, non si sono curati di loro per troppo tempo. Hanno capito che le vere storie si costruiscono facendole nascere e vivere, proprio mentre molte imprese pensano di cavarsela con lo story-telling, la nuova frontiera del vecchio vizio di mandare avanti la rappresentazione in assenza di nuova sostanza.
Innovazione e nuove storie non nascono dal semplice rispetto delle regole o dall’ossequio formale di esperienze e meriti passati. E di per sé, spesso, non hanno neppure la pretesa di essere subito efficienti. È la libertà di pensiero che le muove, il coraggio di esplorare altre strade; la voglia di dimostrare che altre soluzioni sono possibili.
A chi rischia dovrebbe essere consentito di poter parlare apertamente per esprimere la propria posizione e di presentare le proprie ipotesi di soluzione. In fondo, quello che si chiede è un confronto. Normalmente chi ha delle idee e le matura con la determinazione di uno che “c’ha pensato su” e vorrebbe dare un contributo, non merita di essere considerato un disturbatore, quando non un insolente.
Di solito le nostre strutture organizzative considerano insolenza ogni distinguo rispetto alle norme codificate che non prevedono visioni diverse. Mentre, se noi guadiamo bene, ad armare l’insolente è solo la rigidità inutile di osservanze che, pretendendo di semplificare, in realtà bloccano ogni evoluzione e la possibilità stessa di sviluppo.
L’insolente, di per sé, è solo uno che ha chiaro come ci sia qualcosa che è in un modo e probabilmente dovrebbe essere diversamente; o almeno potrebbe. Rivendica una libertà che andrebbe valorizzata. In nome di un vero e proprio miglioramento degli assetti, dei rapporti e della stessa resa operativa. Creare le condizioni perché contributi diversi possano esprimersi sarebbe una vera ricchezza per le imprese. Richiede però apertura e visione. Mentre una parte della piccola borghesia manageriale ha trovato più prudente, magari negandolo, sposare una deriva burocratica e l’esaltazione di una vera e propria ideologia gestionale. Coi risultati di impoverimento culturale che vediamo. 

 

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