La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

La forza lavoro digitale e il futuro dell’organizzazione

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Grazie all’uso delle tecnologie sociali (Chui et al., 2012), i nativi digitali e i migranti digitali (Bennett, Maton, Kervin, 2008; Marzo e Braccini, 2016; Prensky, 2001) stanno sviluppando numerose nuove competenze che possono essere sfruttate anche nel lavoro. L’insieme di queste competenze costituisce la digital fluency (Briggs, Makice, 2011), definita come “l’abilità di raggiungere i risultati desiderati mediante l’utilizzo della tecnologia”, una meta-competenza che va ben oltre la semplice conoscenza di alcuni programmi e applicazioni (digital literacy). Coloro che sono digitally fluent hanno la capacità di manipolare digitalmente informazioni, sviluppare idee e utilizzare la tecnologia per raggiungere obiettivi strategici (Hsi, 2007).

Due recenti report di ricerca (Bughin et al., 2016; Manyika et al., 2015) mostrano come la digital fluency, in quei lavori chiamata digital deepening, sia il principale fattore che spiega l’aumento di produttività nei diversi settori dell’economia. Per gli autori siamo difronte a un nuovo digital divide, non più tra imprese digitalizzate e non digitalizzate ma, all’interno delle imprese digitalizzate, tra imprese digitally fluent, che prosperano, e le altre che si limitano a sopravvivere. Sia i nativi digitali sia i migranti digitali, sfruttando le loro reti sociali attraverso le tecnologie, possono creare rapporti di collaborazione professionale, manipolare dati, risolvere problemi e concepire nuovi prodotti e metodologie lavorative. È attraverso di loro quindi, che il modo in cui il lavoro è strutturato ed eseguito viene influenzato dagli sviluppi tecnologici.

È probabile, per esempio, che i lavoratori digitalizzati si sentano a proprio agio nel seguire programmi di formazione utilizzando la tecnologia (Kraiger, Ford, 2006) offrendo alle aziende una soluzione a basso costo e sostenibile per l’apprendimento e l’aggiornamento continuo delle competenze.

I lavoratori digitally fluent sanno accedere a enormi risorse informative, possono collaborare con colleghi dall’altra parte del mondo e realizzare prodotti con maggiori capacità a un costo inferiore. Sono loro che sfruttano al meglio le piattaforme di knowledge-sharing, presenti ovunque all’interno delle grandi organizzazioni, trasformandole in punti focali nei processi di problem solving (Haas, Criscuolo, George, 2015).

Man mano che diventa sempre meno comune per i team lavorare in un ambiente fisico, le organizzazioni devono disporre di dipendenti con solida padronanza nell’utilizzo di strumenti collaborativi virtuali quali per esempio Slack, Workplace o Trello per la gestione di progetti. Inoltre, con il crescente utilizzo di contenuti social creati in-house per fidelizzare i clienti e accrescere il brand, i collaboratori più efficaci nell’utilizzo dei social media possono diventare risorse importanti per l’azienda (Kumar, Bezawada, Rishika, Janakira-man, Kannan, 2016). Ma, in parallelo all’ingresso della forza lavoro digitale, le crescenti aspettative di vita e le conseguenti riforme dei modelli pensionistici, stanno prolungando la permanenza in azienda della forza lavoro attuale (Kulik, Ryan, Harper, George, 2014).

La forza lavoro digitale condivide quindi il lavoro con colleghi che non sempre si sentono a proprio agio con la tecnologia, pertanto le aziende dovranno risolvere i conflitti che ne possono emergere. Sarà necessario definire come creare processi che sfruttino bene la digital fluency di alcuni, ma anche indagare come diversi gradi di digital fluency tra colleghi possano impattare sui livelli di fiducia, di conflitto e di collaborazione (Marzo, Braccini, 2016).

Date le sue caratteristiche, la forza lavoro digitale potrebbe reagire bene a strategie motivazionali simili a quelle presenti nei mondi virtuali. Di fatto la gamification, l’applicazione di principi di game design a contesti diversi (Robson, Plangger, Kietzmann, McCarthy, Pitt, 2015), è già una strategia comune per incrementare la motivazione dei dipendenti nelle imprese, ma Jane McGonigal (2011) ha suggerito che potrebbe essere utile per le organizzazioni riflettere su come i giochi online siano intrinsecamente motivanti grazie al fatto che forniscono chiari obiettivi e feedback in tempo reale.

Gli attuali modelli di gaming, inoltre, si basano sul principio di lanciare sfide adeguate al livello di competenze del giocatore, facili all’inizio e difficili man mano che si procede apprendendo nuove skill, e premi piccoli e frequenti per il raggiungimento di obiettivi. Queste strategie sono coerenti con le attuali teorie motivazionali (Hackman, Oldham, 1980; Locke, Latham, 2002), ma sono necessari ulteriori sforzi per comprendere come il design dei sistemi di gamification influenzino la motivazione.

Infine, i giocatori online sono spinti da diverse motivazioni: alcuni cercano la sensazione di acheivement, altri cercano nuove conoscenze e altri ancora l’esperienza di immergersi in un mondo alternativo (Yee, 2006). Di conseguenza, i giochi vengono sviluppati per permettere ai giocatori di personalizzare l’esperienza in base alle proprie necessità. Forse la gamification nelle aziende potrebbe offrire ai dipendenti delle esperienze lavorative e di sviluppo personalizzate, simili a queste. Insomma, grazie alla tecnologia i processi lavorativi hanno sempre meno vincoli temporali o geografici e man mano che anche le interazioni sul posto di lavoro diventano virtuali, le social technology diventano il collante che ci collega al nostro ambiente di lavoro e, allo stesso tempo, un potente motore di innovazione organizzativa.

 

Le digital soft skill per il management

Una scena del film ‘The Circle’: i protagonisti della pellicola, tratta dall’omonimo best seller, vivono e lavorano costantemente connessi

Molte organizzazioni, comprendendo questo potenziale delle social technology, hanno risposto puntando a sfruttarne la capacità innovativa dei processi aziendali (Chui et al., 2012; Li, Bernoff, 2011). Tale scelta però crea un dilemma per i manager. Mentre da un lato il potenziale dei social media è enorme (Chui et al., 2012), il loro utilizzo aziendale aumenta i rischi di diffusione incontrollata di dati sensibili.

Oltre a questo problema, c’è anche un disallineamento tra la logica della cultura partecipativa propria dei social media, che incoraggiano la collaborazione orizzontale e conversazioni informali che viaggiano lungo percorsi casuali incuranti delle gerarchie, e il modello ancora imperante nelle grandi imprese che enfatizza i processi lineari e il controllo gerarchico. Queste tecnologie quindi cortocircuitano dinamiche di potere tradizionali dei canali di comunicazione formalizzati. Gestire queste nuove dinamiche indirizzandole alla creazione di valore richiede molto di più che semplicemente saper utilizzare la tecnologia, significa essere social nel lavoro e agire da facilitatori e da mentori più che da capi gerarchici. Per sfruttare il potere di innovazione organizzativa dei social media, mitigando nel contempo i rischi, è quindi necessario diffondere nel management nuove competenze necessarie ad integrare e valorizzare la forza lavoro digitale arricchendo in chiave digitale le tradizionali soft skill dei manager.

Diversi contributi hanno affrontato il tema delle digital soft skill, in particolare tra gli studi empirici, il citato lavoro di Briggs Makice (2011) elenca le seguenti skill come costituenti base della digital fluency: networking, intesa come l’abilità di cercare, sintetizzare e disseminare informazione; play, la capacità di sperimentare con il contesto come forma di problem solving; performance, la capacità di adottare identità alternative al fine dell’improvvisazione e della scoperta; symulation, la capacità di interpretare e costruire modelli dinamici dei processi del mondo reale; appropriation, l’abilità di campionare e rimixare contenuti in modo significativo; multitasking, l’abilità di monitorare l’ambiente e cambiare focus se-condo le necessità; distributed cognition; la capacità di interagire con strumenti che espandono le capacità mentali; cognitive cognition, la capacità di integrare la conoscenza e comparare le posizioni con gli altri per muoversi verso un obiettivo; judgement, l’abilità di valutare l’affidabilità e credibilità di diverse fonti di informazione; transmedia navigation, capacità di seguire il flusso delle storie e delle informazioni attraverso diverse piattaforme; negotiation, la capacità di muoversi attraverso diverse community, riconoscendo e rispettando diverse prospettive e acquisendo e seguendo norme alternative; visualization, l’abilità di interpretare e creare rappresentazioni dei dati al fine di esprimere idee, trovare dei pattern e identificare trend.

Deiser Newton (2013) invece, analizzando il caso General Electric, identificano i seguenti ruoli caratterizzanti il profilo dei manager più digitally fluent:

Consulente: supporter del dispiegamento dei social media nei processi aziendali;

Progettista: capace di far leva sulle social technology a supporto delle funzioni di business;

Analista: abile a comprendere le dinamiche culturali e comportamentali dei social media;

Ricevitore: capace di interpretare le informazioni ricevute e creare risonanza tramite l’uso tattico dei segnali di rating degli strumenti utilizzati, ad es. i like o le risposte;

Distributore: sa comprendere le dinamiche sociali cross-platform e usarle strategicamente per costruirsi una base rilevante e consistente di follower;

Produttore: capace di sviluppare creativamente contenuti efficaci.

 

L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Agosto-Settembre 2017 di Sviluppo&OrganizzazionePer leggere l’articolo completo – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419).

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