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La guerra del sapere

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Spread, deficit, austerity: da tempo fredde parole come queste ci tormentano, come gli incubi scolastici che periodicamente ritornano a disturbare i nostri sonni a distanza di decenni dal liceo. Infatti come se non bastassero le iatture finanziarie, la lettura di due recenti inchieste sul nostro Paese ha rafforzato in me la sensazione di far parte di una società sempre più gravemente malata e rassegnata a convivere con uno stato di salute depresso e tendente al cronico degenerativo: rating in ribasso e outlook negativo!

Mi riferisco in primis al rapporto stilato da Ipsos Mori denominato Index of Ignorance, di fatto una rilevazione statistica che indica i Paesi cui attribuire il non invidiabile primato di più ignoranti al mondo. È un campione costruito periodicamente su una popolazione di oltre 10mila individui per nazione, che vengono sottoposti a una serie di domande tese a verificare il livello di conoscenza socioeconomica del proprio Paese nei più svariati settori.

Ormai l’Italia naviga da tempo nelle ultime posizioni, facendo emergere percezioni della realtà a dir poco sorprendenti: le risposte evidenziano una radicata convinzione che esista un 49% di disoccupazione, un 30% di tasso di immigrazione, un 17% di ragazze madri sul totale delle nascite, e altre ‘perle’ del genere.

Se queste sono le conoscenze della quotidianità viene facile capire il perché di una distanza dagli altri Paesi che continua ad allargarsi anche nel campo del sapere aziendale e professionale. Nonostante alcune scuole e università rappresentino ancora un laboratorio di buone pratiche e di sviluppo di eccellenze, non è un caso tuttavia che da troppo tempo l’Italia non sia in grado, per esempio, di esprimere un premio Nobel in ambiti scientifici e soprattutto economici.

Come se non bastasse, sui media è apparsa in questi giorni un’ulteriore ricerca, condotta dal Global Teacher Status Index, che racconta di una scuola italiana dove è ormai venuto a mancare il rapporto di fiducia tra insegnanti e studenti: nella classifica globale ci poniamo al 33esimo posto su 35 nazioni analizzate.

Non c’è da stupirsi. Ogni giorno le cronache riportano episodi inquietanti di bullismo verso i professori, senza contare le continue risse verbali tra genitori e docenti, i dirigenti scolastici rassegnati, la sfacciataggine nel postare sui social filmati sconvolgenti di violenza verbale e non solo.

Se pensiamo che tra questi giovani si formeranno i decisori futuri all’interno delle classi dirigenti che verranno, per di più in uno scenario reso sempre più complesso dall’incertezza e dalla complessità dei processi planetari, c’è di che inquietarsi.

Non so se si è mai provato a calcolare il costo dell’ignoranza o, in un’altra angolatura, dello spreco di potenziale umano, ma mi sento di affermare che l’ipotetica cifra basterebbe a coprire le manovre finanziarie di alcuni anni, quando al contrario un investimento strategico nella scuola e nel sapere in generale darebbe in futuro al Paese parecchie marce in più e soprattutto molti punti di Pil.

Purtroppo nell’analisi del processo disgregativo della vecchia middle class si ricava la sensazione che si stia allargando sempre di più il divario tra chi continua con sacrifici a investire in conoscenza e in cultura per accreditarsi come cittadino del mondo, e una crescente popolazione, tra cui una moltitudine di colletti bianchi, rimasta tagliata fuori in questi anni da ogni aggiornamento professionale per mancanza di un vero disegno di politica industriale e per le troppe erronee valutazioni aprioristiche sui costi dell’apprendimento.

La formazione come investimento rimane nel nostro Paese una pia illusione. E una massa disinformata e soprattutto priva di capacità valutativa e di coscienza critica, sempre più scettica e disillusa verso il mondo del lavoro, è merce preziosa per la politica dei nostri tempi, costruita ormai da anni su hashtag e su like capaci di catturare facili consensi in una frazione di secondo nel brodo primordiale di questa deriva decadentistica.

Lo storico Pasquale Villari 150 anni fa constatava amaramente: “Bisogna che l’Italia cominci con il persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza”.

A un secolo dalla storica vittoria militare, la guerra del sapere non è terminata, anzi, ci ha visto purtroppo ripiegare su un’immaginaria Linea del Piave oltre la quale bisogna sapere che non si può e non si deve più cedere terreno. Non è solo una questione di prestigio: è una sfida epocale di sopravvivenza e di civiltà.


Antonio Rinetti

Ex Direttore del Personale di un importante istituto bancario e attualmente Consulente HR. Cura la rubrica 'Essere o non essere' sulla rivista Persone&Conoscenze

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