La partecipazione stimola la crescita d’impresa
coinvolgimento dei lavoratori, partecipazione, partecipazione diretta, partecipazione strategica
Negli anni scorsi, in Italia, nella pratica aziendale si è molto diffusa la parola “coinvolgimento”, intesa come termine neutrale per indicare che i lavoratori venivano associati ad attività di tipo tecnico e gestionale che nel passato erano riservate ai capi. La parola “partecipazione” invece si è diffusa in misura minore, perché nel contesto italiano viene considerata molto sensibile in quanto carica di significati ideologici e usata di solito per indicare una interferenza sindacale nella gestione aziendale.
Anche nei contesti europeo e americano c’è una certa oscillazione nell’uso dei due termini. In molti ambienti si usa la parola “involvement” (coinvolgimento) per indicare le forme di informazione e consultazione dei lavoratori nelle quali la loro possibilità di incidere nel processo decisionale dell’impresa è assente o limitato, mentre la parola “participation” è usata per le situazioni in cui la possibilità di incidere sulle decisioni aziendali è più evidente, come nei team autonomi o nella codeterminazione delle strategie e delle scelte rilevanti.
Le tre categorie della partecipazione
La proposta qui presentata – seguendo gli studi di Guido Baglioni – è di intendere per partecipazione qualsiasi pratica, o istituto formalizzato o negoziato, che faccia interagire in modo diretto la Direzione di impresa e i lavoratori dipendenti, allo scopo di regolare il lavoro e la gestione dei processi negli aspetti non affrontabili dalle disposizioni formali. In altre parole le pratiche di partecipazione cercano in vari modi di temperare, affiancare o condizionare il potere di comando dell’impresa e della gerarchia.
Se si osserva la partecipazione dal punto di vista degli obiettivi e delle modalità, la tipologia più utile per descriverla ci sembra quella proposta da Baglioni sulla scia delle ricerche di Keith Sisson per la Fondazione Europea di Dublino. In essa vengono distinte tre forme di partecipazione.
La partecipazione strategica è la possibilità di influenzare le scelte strategiche e di lungo periodo dell’impresa (come per esempio l’allocazione degli investimenti, l’apertura o chiusura di fabbriche, le fusioni e le acquisizioni) attraverso la partecipazione di rappresentanti eletti dai lavoratori a organismi decisionali. L’archetipo è ovviamente il sistema tedesco della codeterminazione o Mitbestimmung.
La partecipazione diretta (o operativa) riguarda la generalità dei lavoratori, che possono essere coinvolti in forme di comunicazione o consultazione rivolte a tutti, oppure in forme di gestione dell’operatività, come per esempio i team operai. Gli obiettivi sono il miglioramento sia delle condizioni di lavoro sia della produttività di impresa.
Infine la partecipazione organizzativa si attua quando vengono sviluppate commissioni congiunte (o gruppi di miglioramento) nelle quali, all’interno di una unità produttiva, alcuni lavoratori affrontano problemi di miglioramento e innovazione assieme al management. Va ricordato tuttavia che oggi nel lessico corrente spesso si intende con “partecipazione organizzativa” l’insieme di queste due ultime forme, senza distinguere le forme dirette da quelle organizzate in commissioni.
In Italia le esperienze di partecipazione sono deboli
Nel nostro Paese la storia delle relazioni sindacali si è caratterizzata, sin dagli inizi del Novecento, per una tendenza all’oscillazione tra due estremi, o meglio tra due anime dei movimenti: essere antagonisti o partecipare? Confliggere o accordarsi? Negli anni della Repubblica, dopo i grandi conflitti sociali degli Anni 60 e 70, anch’essi attraversati da spinte antagoniste e, per contrappeso, da tentativi partecipativi, le due anime sembravano avere finalmente trovato una sintesi in uno schema di fondo che sembrava conciliare il conflitto e l’antagonismo con l’accordo e la partecipazione.
In modo molto schematico si può dire che il paradigma delle nostre relazioni industriali degli ultimi 30 anni si è basato su un modello che considera gli interessi di lungo periodo degli attori, e quindi anche i loro sistemi di valore, come contrapposti e non conciliabili. Le relazioni industriali quindi si fondano su questa idea. Ma tutti devono riconoscere la necessità dell’accordo. L’accordo è necessario per garantire il funzionamento del sistema, ma soprattutto per rispettare il patto democratico alla base della nostra Costituzione.
Con il tempo, quindi, la via maestra per la soluzione di tutti i conflitti sociali è stata trovata nella contrattazione e nell’accordo come compromesso necessario tra interessi contrapposti. Pertanto la partecipazione diretta dei lavoratori alla vita dell’impresa è stata vista sempre con diffidenza, come una sorta di cedimento agli interessi dell’impresa, come un ‘tradimento’ e come alternativa al negoziato. Queste difficoltà tuttavia non hanno limitato il dibattito teorico, che invece ha conosciuto momenti intensi, come negli Anni 70 per l’autogestione operaia e negli Anni 80 per la democrazia economica.
L’articolo completo è stato pubblicato nel numero di Luglio-Agosto 2018 di Persone&Conoscenze.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)