La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Lavoro agile: a che punto siamo?

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Molti lo confondono con il telelavoro, ma così non è. Lo smart working è in effetti un approccio innovativo all’organizzazione del lavoro, che si contraddistingue per parametri quali la flessibilità e l’autonomia nella scelta di spazi, orari e strumenti e che prevede una valutazione delle performance sulla base dei risultati raggiunti. Un modello che pare trovare sempre più spazio nelle nostre organizzazioni, come dimostra l’interesse di tante aziende e pubbliche amministrazioni e come attestato dall’impegno istituzionale che si concretizza nella riflessione su una eventuale normativa in materia e nella promozione di alcune iniziative volte alla sensibilizzazione (la Giornata del lavoro agile ne è un esempio).
Certo è che, per essere efficace, al di là dei necessari aggiustamenti normativi e delle innovazioni tecnologiche a supporto, le iniziative di smart working devono integrarsi nella cultura aziendale, facendosi promotrici di un cambiamento radicale dei processi manageriali.

 

Uno spazio concepito per la socializzazione negli uffici di LinkedIn a Milano

I vantaggi dello smart working
Numerose ricerche dimostrano che chi lavora fuori dall’azienda è mediamente più produttivo rispetto ai dipendenti che sono in ufficio (grandi aziende internazionali riportano un aumento di produttività del 35-40%), si assenta meno (del 63% circa) ed è sicuramente più soddisfatto, riuscendo a conciliare i tempi lavorativi con quelli di vita. Alcuni stimano che l’adozione di pratiche di smart working in Italia potrebbe significare un aumento della produttività di 27 miliardi, che unitamente al risparmio – di circa 10 miliardi – sui costi fissi per gli spazi-ufficio vuol dire ottimizzazione delle risorse aziendali. Con lo smart working si ottiene, inoltre, una riduzione considerevole del percorso casa-lavoro incidendo sul traffico e, di conseguenza, sulle emissioni di anidride carbonica, con grande beneficio per l’ambiente e miglioramento della qualità di vita per le persone che vi abitano.
Tutto ciò è ampiamente testimoniato dai dati sulla prima Giornata del lavoro agile che si è svolta a Milano il 6 febbraio dello scorso anno: 5.000 le adesioni, 150.000 i km risparmiati, l’1% di inquinamento urbano in meno e una media di 2 ore di vita accumulate per ciascuna persona. Un caso di successo, quello promosso dal Comune di Milano, che ha raggiunto l’obiettivo di sensibilizzare i settori pubblico e privato e diffondere le buone pratiche dello smart working. Un’iniziativa che si è ripetuta il 25 marzo di quest’anno con esiti ancora più positivi: in primo luogo poiché è stata estesa ad altre città; in secondo luogo perché ha visto un’adesione ancora più straordinaria rispetto al 2014; in terzo luogo perché ha coinvolto, per la prima volta, gli spazi di co-working cittadini, che si sono resi disponibili a ospitare gratuitamente i ‘lavoratori agili’ nell’arco dell’intera giornata. Una testimonianza, quindi, delle logiche win-win che sottostanno allo smart working: soluzioni di poco costo ma di enorme efficacia in termini di benessere per persone, aziende e società.


I fattori di sviluppo dello smart working
Perché il modello organizzativo dello smart working funzioni occorre investire in più direzioni. I fattori che sottendono il cambiamento sono dunque molteplici.

Si tratta innanzitutto di innescare un processo di digital transformation che influenzi la modalità di lavoro, rendendo agile la comunicazione e la collaborazione anche al di là dei tradizionali spazi-ufficio. Sono questi interventi strutturali, che richiedono l’utilizzo di strumenti di unified communications & collaboration, l’introduzione di applicazioni mobile e la messa a punto di iniziative di social computing.
Vi è poi da compiere un’importante opera di ripensamento delle policy organizzative, in termini di introduzione di forme di flessibilità oraria e di luoghi; aspetto sul quale l’Italia pare andare in direzione contraria rispetto al resto d’Europa. Non solo nel nostro Paese sono rare le aziende che adottano forme di flessibilità – nella top 27 degli Stati europei siamo al 25esimo posto! –, ma preoccupa anche il fatto che tali forme siano tuttora riservate a pochi profili.
Si sottolinea, inoltre, una grande incognita per quanto riguarda la riprogettazione degli spazi fisici sulla base di quattro diverse esigenze delle persone; esigenze di interazione, di comunicazione, di contemplazione e di concentrazione, che richiedono tutte uno spazio pensato ad hoc.
Lo smart working necessita, infine, di una trasformazione degli stili di leadership: da una logica di valutazione orientata al controllo a una logica per obiettivi, dunque orientata al risultato; dalla rincorsa dei target alla pianificazione strutturata delle attività; dalle gerarchie al senso di community, che crea nel dipendente una percezione di appartenenza e un sensazione di fiducia.
Secondo i dati di una recente ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il 67% delle aziende ha già attivato qualche iniziativa in questo senso, ma ad oggi solo l’8% adotta realmente un modello di smart working, cioè ha sviluppato un piano sistemico introducendo strumenti tecnologici digitali, adeguate policy organizzative, nuovi comportamenti organizzativi e layout fisici degli spazi. Per meglio dire, tante aziende sono oggi fortemente interessate al tema e si stanno adoperando per testare il terreno; ma persistono alcune criticità per la diffusione dello smart working come modello organizzativo alternativo. Alla base vi è una normativa pesante e restrittiva, una visione miope e rigida delle relazioni industriali e una cultura del lavoro pesantemente gerarchica. Inoltre, nel percorso d’innovazione organizzativa, l’Italia sembra frenata dalla grande presenza di imprese medio-piccole con modelli di lavoro ancora molto tradizionali.

La normativa sullo smart working (a cura dell’avvocato Paola Salazar)
Non esiste al momento una normativa specifica in materia di smart working e questo fattore può creare qualche difficoltà. Non essendoci una cornice giuridica di riferimento per l’implementazione dei progetti, a differenza di quanto avviene in materia di telelavoro, che è invece normato, si può dare adito ad alibi per le organizzazioni e frenarne l’impeto sul piano della sperimentazione e sul versante dell’adozione di pratiche di smart working.

Ciò che più preoccupa il datore di lavoro è il problema della sicurezza e l’incertezza in merito alla identificazione della corretta tariffa INAIL, per non parlare del rischio di regresso da parte dell’istituto.
Con il ‘vecchio’ telelavoro (remote working o lavoro da casa – on line o off line) il problema sicurezza viene risolto in modo semplice, perché già previsto dalla legge, soprattutto con riferimento allo svolgimento della prestazione in telelavoro in modo “continuativo” (art. 3, comma 10 del D.Lgs. n. 81/2008): l’azienda si incarica di verificare che la postazione di lavoro nel domicilio del lavoratore sia a norma.
Con il telelavoro mobile funziona diversamente poiché non è detto che la postazione di lavoro coincida – sempre – con il domicilio del lavoratore. In questo caso e anche da un punto di vista tariffario può aumentare il rischio per il concorso di fattori di ‘rischio ambientale’, che sono difficilmente valutabili proprio perché legati ad ambienti che non sono ‘ambienti di lavoro’ in senso tradizionale, ma sui quali si chiede comunque una ‘vigilanza’ da parte del datore di lavoro. Affinché tali tipologie di rischio siano tenute sotto controllo, potrebbe essere utile circoscrivere il numero dei luoghi dove è possibile eseguire il telelavoro nella modalità mobile. Tra gli spazi ‘controllabili’ si escludono dunque i luoghi pubblici e aperti al pubblico (come i parchi o i bar), dove potrebbe essere maggiore il rischio ambientale; mentre vi rientrano, per esempio, gli spazi di co-working o le strutture alberghiere, ovvero ancora le seconde case, rientranti sempre nella nozione di “domicilio”, utile ai fini della sua valutazione per lo svolgimento dell’attività in telelavoro. Luoghi nei quali è possibile circoscrivere – se non controllare – il rischio, perché analoghi al domicilio abituale, ma nei quali resta pur sempre alto il cosiddetto rischio elettivo (quello legato all’area di libera determinazione e volontà del lavoratore, mai oggettivamente controllabile).
Cosa c’entra tutto ciò con lo smart working? Se lo smart working non è telelavoro, è anche vero che il telelavoro può rientrare come modalità operativa di lavoro nel più ampio modello dello smart working. Ora, se consideriamo soltanto la pratica del telelavoro mobile, che non abbisogna di postazione fissa, e dunque la normativa che lo regola, possiamo fare alcuni passi avanti nella riflessione giuridica sul tema. Il quadro di riferimento normativo per lo smart working non sarebbe più inesistente perché a regolare il telelavoro mobile sono:

  • l’art. 4 della Legge 191/1998 e il suo regolamento di attuazione (D.P.R. n. 70/1999) per il settore pubblico;
  • l’accordo Interconfederale 9 giugno 2004, di recepimento dell’accordo Quadro europeo del 16 luglio 2002 per la promozione a livello europeo di forme di organizzazione più flessibile del lavoro;
  • l’art. 3 comma 10 del D.Lgs. 81/2008 in materia di igiene e sicurezza del lavoro dei telelavoratori.

Norme alle quali si affiancano gli accordi individuali volontari siglati tra azienda e lavoratore. Tali accordi regolano il telelavoro mobile identificando ad esempio, nel quadro della cornice giuridica di riferimento, il/i luogo/i della prestazione (scelti tra quelli in cui il rischio, anche ambientale, è stato oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro), la sua durata (per escludere il problema dell’eccessivo lavoro e dello stress lavoro-correlato), il suo coordinamento (comprese le misure di monitoraggio, di informazione e di formazione necessarie a garantire che la prestazione avvenga in “sicurezza”, così come quelle tese alla non esclusione del lavoratore dall’organizzazione dell’azienda e dal proprio gruppo di lavoro).
Fondamento di tali accordi è necessariamente la fiducia, che presuppone una maggiore responsabilizzazione del lavoratore (anche in termini di sicurezza, per evitare comportamenti idonei ad aumentare il rischio) e l’abbandono della logica del controllo propria del rapporto di lavoro subordinato. Ciò non significa né allargare o ridurre le tradizionali pratiche di misurazione della performance, ma solo mutarne l’oggetto. È chiaro, infatti, che se i risultati non sono coerenti a quelli attesi niente vieta di recidere questo nuovo patto di fiducia, abbandonando la modalità “telelavoro” per tornare a modalità di esecuzione della prestazione di tipo tradizionale; così come è necessario fissare a monte, con il benestare di azienda e lavoratore, gli obiettivi di gruppo e individuali sulla base dei quali stabilire il mantenimento o la fuoriuscita dal programma di lavoro agile.
La conclusione è che, in attesa di creare una normativa specifica che regoli lo smart working, possiamo utilizzare come quadro di riferimento nazionale quella già esistente in materia di telelavoro, affidando all’azienda e al dipendente il compito di stipulare quegli accordi individuali che sono la vera fonte di attuazione di un programma di telelavoro.
Alcuni sostengono addirittura che, a tal proposito, non sarebbe nemmeno necessaria una legislazione nazionale oppure che tale regolamentazione dovrebbe rimanere abbastanza flessibile da concedere ampi spazi di manovra alla sperimentazione da parte delle aziende, sia nella forma degli accordi individuali sia nella forma degli accordi collettivi di livello aziendale; cosa che oggi pare essere il vero motivo trainante delle future evoluzioni.

 

 

 

 

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