La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Lavoro agile: l’occasione per il futuro. Ma in Italia la strada è ancora lunga

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di Nadia Anzani

La tecnologia ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, socializzare, informarci, innamorarci e anche di lavorare. È grazie a internet e agli strumenti di ultima generazione se oggi possiamo svolgere gran parte dei lavori da qualsiasi parte del mondo. Da casa come dal bar o dall’ufficio. La parola d’ordine per le aziende moderne pare essere diventata flessibilità o lavoro agile, quello che gli anglosassoni chiamano smart working. Ma in Italia, come spesso succede con i trend che arrivano da Oltreconfine, questo concetto viene declinato in modi diversi e spesso perde un po’ la sua natura concettuale, come raccontano i dati delle ultime ricerche sul tema.

In base agli studi più recenti, nel 2015 solo il 17% delle grandi imprese ha attuato progetti strutturati di smart working (era l’8% nel 2014). A queste si aggiunge il 14% di grandi imprese che sono in fase “esplorativa”, ovvero che si apprestano ad avviare progetti in un prossimo futuro. Più ampio il numero delle aziende che, invece, hanno adottato iniziative tese a creare maggiore flessibilità, come policy su orari e spazi di lavoro, dotazione tecnologica a supporto, revisione del layout degli uffici o interventi sugli stili di leadership: in questa direzione si sono mosse una impresa su due.
Non c’è da meravigliarsi. In Italia, per ragioni culturali che si perdono nella notte dei tempi, nel rapporto tra datore di lavoro e dipendenti la fiducia è sempre stata un po’ soffocata. E il fatto che da noi, come è noto, il tessuto industriale è costituito prevalentemente da piccoli e medi imprenditori, certo non aiuta. La prova sta nei numeri. I report più aggiornati indicano che più di una Pmi su due non conosce ancora questo approccio o si dichiara disinteressata.

Occhio all’effetto moda
Quando si parla di lavoro agile, l’effetto moda va accuratamente dribblato se si vuole evitare di trasformarlo in una bella scatola vuota di significato che, come tale, non porta ad alcun risultato significativo né per l’azienda né per i lavoratori. Così come va evitato di adottare lo smart working solo con l’obiettivo di tagliare i costi aziendali legati all’energia e all’affitto degli spazi ufficio. I cambiamenti superficiali, in questo caso, valgono meno di zero.
Per fare davvero lavoro agile e soprattutto per avere dei ritorni seri in termini di produttività bisogna ripensare nel profondo cultura e modelli organizzativi aziendali, introdurre in modo strutturato nuovi strumenti digitali, policy ad hoc, comportamenti manageriali e nuovi layout fisici degli spazi. È necessario fare un lungo e profondo lavoro di preparazione del terreno che parte dal considerare le specificità interne dell’azienda e cercare una coerenza con gli obiettivi e la strategia di business, per poi trovare equilibri che vanno incontro alle esigenze e alle aspirazioni delle persone. Il tutto sfruttando al meglio le opportunità dei nuovi strumenti digitali. Per fare questo i lavoratori non solo vanno coinvolti nel progetto, ma devono anche condividere obiettivi e pensiero aziendale, strategie e valori. Un percorso durante il quale il ruolo dei manager diventa fondamentale. Anche loro devono cambiare pelle: da controllori diventare veri punti di riferimento per i lavoratori, capaci di dare obiettivi chiari da raggiungere, ma anche di supportare le risorse in modo adeguato e renderle capaci di decidere autonomamente le modalità con cui svolgere le proprie attività.

Manca una normativa chiara
Va poi considerato che in Italia al momento non esiste Ancora una normativa che tuteli i lavoratori agili e ogni azienda, finora, si è regolata da sola. Il Disegno di legge sullo smart working è al vaglio del Senato, ma i tempi necessari perché si trasformi in legge restano incerti. Unica evidenza è la necessità di tutelare i dipendenti sotto ogni aspetto. La relazione introduttiva al Disegno di legge sulle nuove misure per il lavoro autonomo che contiene nella seconda parte le norme sul lavoro agile lo definisce una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. Lavoro subordinato appunto e come tale dà diritto a ricevere un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato ai lavoratori che svolgono le stesse mansioni all’interno dell’azienda. Compresi gli incentivi di carattere fiscale e contributivo (per esempio i premi), che vanno riconosciuti agli smart worker in caso di incremento di produttività ed efficienza.
Il Disegno di legge introduce anche regole sulla salute e sicurezza dei lavoratori, che il datore di lavoro deve garantire a chi svolge questo tipo di prestazione. Insomma sulla carta garanzie e tutele per il lavoratori ci sono. C’è solo da sperare che strada facendo non si perdano.

Case history: Sedus

Spazi lavoro per il benessere dei lavoratori
Lo smart working ha messo in soffitta gli open space così come le sale riunioni. Oggi nelle aziende si fa largo un mix di spazi più o meno ampi per accogliere lavoratori single o team di lavoro di dimensioni diverse, ma anche luoghiinformali dove i lavoratori di passaggio in azienda possono rilassarsi o incontrarsi, discutere, confrontarsi, concentrarsi, tenere conference call internazionali o chiamate private. Perché con il lavoro agile cambiano le esigenze dei collaboratori e con esse gli spazi ufficio, che devono prepararsi ad accoglierli al meglio con ambienti capaci di metterli a loro agio. Obiettivo: stimolare la loro creatività e produttività. Tutte necessità cui Sedus, azienda nota in tutto il mondo per le sue sedute ergonomiche e per le soluzioni di arredo per ufficio complete, sa dare risposte mirate. E non per slogan, ma per esperienza diretta. La società tedesca, nata nel 1871 a Waldshut in Germania, che oggi conta otto filiali in Europa e una rete di rappresentanza su scala mondiale, è stata infatti non solo un’antesignana del lavoro flessibile, ma anche una delle prime a mettere le risorse umane e il rispetto per l’ambiente al centro della sua strategia e organizzazione industriale. Basti dire che nel 1953 Christof Stoll, ultimo Amministratore Delegato appartenente alla famiglia fondatrice, ha introdotto la partecipazione agli utili dell’azienda per tutti i collaboratori. Non solo. Nella sede tedesca della società fin dal 1966 esiste un orto aziendale dove vengonofino ai pannelli fonoassorbenti”, spiega Lorenzo Maresca, Amministratore Delegato della sede italiana della società. “Siamo in grado di seguire internamente tutte le fasi della produzione: dalla progettazione alla realizzazione di prototipi fino ai test e collaudi. Ma da noi la catena di montaggio non esiste”, prosegue Maresca: “Ogni prodotto viene seguito dall’inizio alla fine della sua realizzazione da una persona che, nella fase di confezionamento, lo personalizza applicando una etichetta con il suo nome”. Tutto tenendo sempre ben presente i criteri di ergonomia, design, funzionalità, sicurezza, qualità ed ecosostenibilità, che sono da sempre le fondamenta su cui si basa Sedus. coltivati i prodotti poi utilizzati nel “ristorante aziendale”, così in Sedus viene chiamata la mensa. Il tutto per il benessere dei dipendenti. “Ed è sempre con quest’ottica che progettiamo i nostri prodotti, dalle sedute ai sistemi di arredoNon a caso il concetto di arredo olistico, quella cultura emozionale dello spazio ufficio che punta al benessere delle persone a vantaggio della produttività, in Sedus esiste da più di 10 anni.

 

Case history: Banco Popolare

Superare i vincoli dello spazio fisico
Il Banco Popolare è una delle realtà che ha già implementato lo smart working. A occuparsi di tutti gli aspetti organizzativi e gestionali è Barbara Marin, che guida una apposita struttura dedicata alle Pari opportunità e al Work life balance (Wlb) il cui obiettivo è realizzare politiche di conciliazione tra vita privata e lavorativa e al contempo per promuovere una gestione più equa delle diversità in azienda. “Il primo progetto che ha introdotto in via sperimentale lo smart working è datato febbraio 2015”, spiega Marin. Che rivela: “È nato dauna delle reti territoriali promossa sul comune di Bergamo: si trattava di aderire alla nuova modalità lavorativa basata sulla flessibilità della sede di lavoro, che superasse i vincoli tradizionali rappresentati dallo spazio fisico e dagli strumenti di lavoro”. Per Banco Popolare, il lavoro agile significa “la possibilità, per massimo due giorni alla settimana, di lavorare al di fuori dell’abituale sede di assegnazione, scegliendo o una sede di lavoro diversa dalla propria, in questo caso si parla di co-working, o il proprio domicilio”.
A distanza di oltre un anno, qual è il risultato della sperimentazione? “Il progetto è stato monitorato mensilmente e grazie agli ottimi risultati e all’alto grado di soddisfazione, sia da parte degli smart worker sia dei loro manager è stata ora ampliata a varie sedi del Gruppo; abbiamo partecipato alla Giornata del lavoro agile di Milano sia nel 2015 sia nel 2016 con un numero sempre crescente di adesioni.”, specifica la responsabile delle Pari opportunità e al Wlb di Banco Popola-re. E ora il nuovo obiettivo di “medio-lungo termine” è quello di “far diventare lo smart working uno strumento gestionale a disposizione di tutte le risorse”.
Tuttavia il lavoro agile ha significato pure affrontare alcune criticità, per esempio il fatto che “una specifica applicazione è risultata più lenta se utilizzata fuori sede”. Ma non solo: “Inoltre abbiamo avuto il caso di un manager che ha evidenziato alcune difficoltà nel dotarsi di un’organizzazione del lavoro per obiettivi e nell’applicare il nuovo modello di leadership”, conclude Marin.

 

Case history: Vodafone Italia

Focus sui risultati e non sulla presenza fisica
Nel nostro Paese l’azienda che ha coinvolto il maggior numero di persone in un programma di smart working è Vodafone Italia: si tratta di ben 3.500 dipendenti che possono scegliere di lavorare in modalità ‘smart’ un giorno alla settimana. “I nostri dati ci dicono che i dipendenti lo apprezzano, con più di 5mila giornate al mese, utilizzate in pari misura da uomini e donne”, spiega Laura Grasso, Head of Learning in Vodafone Italia”.
Per arrivare a questi risultati, l’azienda ha varato il “progetto pilota a fine 2011”, rivolgendosi “da una parte al personale d’ufficio che si occupa di IT e Marketing, dall’altra ai commerciali”: “Due categorie di dipendenti che erano già in parte pronte a lavorare da remoto”, puntualizza la manager. Che ricorda come “l’implementazione dell’organizzazione flessibile del lavoro è avvenuta in concomitanza con lo spostamento dell’headquarterdi Vodafone Italia presso il Vodafone Village di Milano, un edificio moderno e dotato di nuovi spazi collaborativi che escono dalle logiche dell’ufficio tradizionale”. E l’obiettivo è stato pienamente raggiunto: “Gli esiti di questi due progetti sono stati molto positivi, dimostrando che la nostra azienda, oltre a offrire soluzioni per il lavoro agile, se ne fa anche ambasciatrice attraverso i propri collaboratori”, dice Grasso.
La tecnologia è, infatti, il principale abilitatore dello smart working e Vodafone Italia mette a disposizione dei suoi dipendenti “laptop, smartphone, internet key, oltre a strumenti di condivisione e collaborazione come il cloud, servizi di web conference e chat, che permettono la massima condivisione azzerando le distanze fisiche”. Ma lo smart working, ammette la Head of Learning dell’azienda, “non sarebbe stato possibile senza un cambiamento culturale importante, caratterizzato da una focalizzazione sui risultati e non sulla presenza fisica, dalla collaborazione determinata dai progetti e non dagli spazi, da un nuovo rapporto capo-collaboratore improntato alla fiducia e alla trasparenza”.
Oggi in Vodafone lo smart working è una modalità di lavoro che fa parte della quotidianità, tanto che nell’azienda “la questione non è più se adottarlo o meno, ma come farlo al meglio”: “Si tratta di un’evoluzione naturale che deve entrare a far parte della cultura organizzativa delle aziende e diventare prassi consolidata in risposta anche alle emergenti richieste da parte dei dipendenti di conciliare sempre più la vita professionale con quella privata”, conclude Grasso.

 

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