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L’impresa riformista

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L’impresa riformista, libro di Antonio Calabrò (Università Bocconi Editore, 2019), porta a sintesi un ampio materiale, improntato a una visione positiva dell’azienda come leva di cambiamento e di innovazione nel senso di progresso sociale, e di miglioramento non solo delle condizioni economiche, ma di incivilimento complessivo.
L’autore si riferisce naturalmente alla realtà italiana, della quale non si nasconde la criticità e il rischio di una deriva in tutt’altra direzione.

Propone, però, una visione che rifiuta l’autarchia e invece apre al confronto con l’Europa e con il contesto della globalizzazione. Calabrò attinge a molteplici fonti per la sua riflessione: l’esperienza delle imprese migliori – del passato e dell’attualità – che hanno segnato prima i successi del miracolo economico, e successivamente – fino ad oggi – del Made in Italy; i fondamenti posti da grandi intellettuali, dall’abate Galliani e Antonio Genovesi, fino a Carlo Cattaneo e ad Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Adriano Olivetti;

l’esempio dato da illuminati leader d’impresa – imprenditori e manager – in anni lontani come Pirelli, Mattei, Borghi e lo stesso Olivetti, oggi come Brunello Cucinelli, Enrico Loccioni, Andrea Pontremoli, Diego Della Valle e tanti altri. Trovano considerazione nel libro anche le analisi sociologiche; i contributi delle punte avanzate del pensiero manageriale; le analisi giornalistiche che hanno indagato e portato all’attenzione prassi di innovazione ed esempi di impegno nel contrastare negatività e deviazioni di vario ordine, fino alla criminalità mafiosa;

gli studi storici e filosofici; le voci che hanno rilanciato l’importanza della cultura umanistica e degli studi classici come necessario complemento del sapere scientifico nel generare forme di innovazione in tanti campi e nella stessa economia; gli architetti e i designer che hanno saputo valorizzare la dimensione estetica anche nella sua capacità di generare motivazione e creatività nei luoghi di lavoro.

L’azienda come moltiplicatore di valore

In questa prospettiva, l’impresa emerge come luogo denso di valori, che trova ispirazione in cinque parole chiave: “fabbrica”, rilanciata attraverso la nuova Manifattura 4.0; “bella”, a sottolineare la dimensione estetica che accompagna il successo del Made in Italy non solo nei prodotti, ma anche nel disegno pulito e innovativo dei luoghi di lavoro; “sostenibilità”, a significare il rilievo assegnato al ruolo dell’impresa come attore sociale responsabile dello sviluppo; “creatività”, che oltre al design dei prodotti contrassegna le molteplici dimensioni dell’innovazione, compreso il linguaggio della comunicazione e le modalità di relazione con il contesto; “cultura”, che significa riconoscimento delle radici alla base dello stesso sviluppo economico.

La consapevolezza di questi aspetti rimanda a una “cultura politecnica”, che consiste in “un’inclinazione tutta italiana alle sintesi tra umanesimo e scienza, visioni letterarie e artistiche e competenze tecnologiche, cultura del progetto e cultura del prodotto”. Non manca l’esame dei lati oscuri, propri di quell’Italia “sbilenca e che non premia donne e laureati”.

Ma la chiave di lettura del libro risiede proprio nella ricognizione di tutti quei fattori che rappresentano il grande potenziale che le imprese offrono come leva di sviluppo del Paese. Qui si arriva a identificare il nodo critico da sbrogliare, il “paradosso dell’era digitale”, per cui siamo sempre più tecnologici, tuttavia anche meno produttivi: questo dipenderà dal fatto che le nuove tecnologie non hanno ancora fatto sentire tutti i loro effetti, oppure dall’incombere di un “cambio di paradigma”, una metamorfosi che investe imprese e società mettendo in gioco più la qualità che la quantità dello sviluppo?

Resta il fatto che la nostra produttività del lavoro resta debole, rispetto ai Paesi con i quali ci dobbiamo confrontare, anche in quell’industria che è un nostro punto di forza. Questo è il punto intorno al quale le analisi di economisti e sociologi si avvitano, senza riuscire a fare sufficiente chiarezza: perché l’impresa riformista, con tutto il suo potenziale, non riesce a fare sistema, a generare una leadership diffusa, a condurre l’intero Paese su un percorso di evoluzione positiva?

Libri come quello di Calabrò possono alzare la consapevolezza dei riformatori, svelando il filo rosso che unisce tante realtà positive considerate dai più come singoli frammenti. Serve però qualcosa di più, una maggiore forza trasformativa, una diversa e più intensa capacità di coinvolgere nei propri progetti componenti ampie della società; altrimenti, l’impresa riformista rappresenta una prospettiva intellettualmente appagante per un’élite illuminata, ma che non riesce a tradursi in una cultura diffusa, veramente capace di orientare quella trasformazione dei modelli del lavoro, della produzione, dei consumi che è in atto e che si proietta nel prossimo futuro.

La risposta dell’autore: il ruolo dell’impresa nel cambiamento sociale

È un’attitudine paziente, il riformismo. Impone conoscenza profonda delle realtà da modificare; lungimiranza strategica e perseveranza nelle piccole scelte legate da un disegno conseguente; forza nell’accettare le battute d’arresto e creatività nel trovare nuove soluzioni. Non ha l’impeto eroico del giacobinismo, la passione rivoluzionaria della palingenesi, il trascinamento romantico del ‘cambiamo tutto’.

Ma, proprio come la buona ricerca scientifica, procede per trials and errors, scoperte, ripensamenti, ricominciamenti. Il riformismo è il tempo lungo del cambiamento possibile. Ecco le due parole chiave: “cambiamento” e “possibile”. In quest’Italia nevrotica, incline alla retorica dei grandi annunci e alla pratica dei conservatorismi familisti e corporativi, sono proprio le imprese a interpretare – più e meglio di altri attori sociali – le spinte necessarie alle continue trasformazioni dei rapporti di produzione e di scambio.

Le imprese industriali, soprattutto. Nasce proprio da questa consapevolezza, nutrita da una lunga osservazione delle realtà concrete del tessuto produttivo italiano e del profondo radicamento della migliore manifattura in territori carichi di storia e cultura, ma anche di ambizioni innovative, l’idea di raccontare “l’impresa riformista” come soggetto dinamico di un movimento di tutto il sistema Paese verso migliori assetti di sviluppo economico e sociale.

Le considerazioni critiche di Rebora colgono bene questi aspetti, insistendo sull’impresa come leva di cambiamento e innovazione. E d’altronde è abbastanza evidente come proprio l’azienda sia, oltre che produttrice di ricchezza, anche il miglior ascensore sociale rimasto in questo Paese, promuovendo le culture del mercato e del merito, premiando competenze e conoscenze, dando opportunità di integrazione e promozione sociale ed economica.

Stanno qui, appunto, i cardini di sviluppo del sistema industriale italiano: manifattura di qualità, legata a servizi, università d’eccellenza, centri di ricerca, in territori ricchi di storia e ‘saper fare’. Con una forte attenzione per la Green economy e per la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, trasparente, sicura, inclusiva, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale per prodotti, sistemi di produzione, servizi, consumi.

Ce ne sono già parecchie, in Italia, di imprese industriali con queste caratteristiche: luoghi in cui la sostenibilità da Green economy è cardine essenziale della competitività (la Pirelli di Settimo Torinese, progettata da Renzo Piano, ne è un esempio). Altre ne stanno crescendo. L’Italia industriale continua a vantare primati europei (siamo la seconda manifattura della Unione europea, dopo la Germania) in settori come la Meccanica e la Meccatronica, la Gomma, l’Automotive, la Chimica e la Farmaceutica, l’Aerospace, oltre che i tradizionali mondi del Made in Italy, come l’Abbigliamento, Arredamento e Industria Agro-alimentare.

Ed è proprio l’industria di respiro europeo, aperta all’export e agli investimenti internazionali, a fare da cardine di un sistema in cui manifattura e servizi, creatività, ricerca e ‘cultura politecnica’ si integrano nelle nuove dimensioni della Digital economy e di un’economia circolare e civile che consenta un migliore, più qualificato sviluppo. Il libro insiste sul “nuovo triangolo industriale”, tra Lombardia, Veneto ed Emilia, lungo gli assi Ovest-Est e Nord-Sud, con la centralità di Milano, metropoli innovativa e aperta.

Un’originale area europea, caratterizzata dalla sinergia tra luoghi e flussi, spazi di produzione e ricerca e movimenti di persone, risorse, idee.  La recensione di Rebora coglie bene un altro punto chiave del libro, quello sulle scelte necessarie di politica economica e fiscale per fare crescere le imprese: favorire l’innovazione recuperando le misure per l’Industria 4.0, dando spazio a scelte di sostenibilità ambientale e sociale come cardine di competitività.

Il problema è che le attuali scelte di politica economica e fiscale del governo Lega-Movimento 5 Stelle non vanno affatto in questa direzione. Servono, peraltro, anche politiche per infrastrutture efficienti. E per attrarre investimenti internazionali e ricostruire, archiviando la stagione del rancore, un clima di fiducia diffusa, per rimettere in movimento le energie delle imprese.

L’orizzonte di riferimento principale è l’Europa, con una Ue da difendere, rilanciare e fare vivere con maggiori e migliori prospettive di integrazione. L’impresa riformista insiste molto su questi temi. Su un nuovo ‘piano Delors’ per massicci investimenti in infrastrutture materiali e immateriali (un grande progetto di digitalizzazione) e in un rafforzamento del ruolo dell’industria europea. Su una politica comune sull’energia, sull’innovazione industriale, sugli scambi internazionali nel confronto con Usa e Cina. L’impresa vive in un mondo aperto e competitivo.


Gianfranco Rebora

Gianfranco Rebora è Professore ordinario di Organizzazione e Gestione delle risorse umane all’Università LIUC – Cattaneo di Castellanza e Direttore della rivista Sviluppo&Organizzazione.

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