La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

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Manager migliori con la formazione

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L’innovazione tecnologica che stiamo vivendo ha condotto alla perdita di numerosi posti di lavoro: numerose ricerche indicano che circa il 70% delle odierne attività svolte dall’uomo può essere automatizzata nel prossimo futuro. Tuttavia, le stesse tecnologie stanno generando altre opportunità professionali, che impongono nuove competenze.

Di conseguenza c’è bisogno di un cambiamento del sistema formativo-educativo, chiamato ad adattarsi alle nuove dinamiche. Per affrontare al meglio le nuove sfide è necessario puntare sull’apprendimento continuo, utile per continuare a interpretare al meglio un mercato ‘datacentrico’, nel quale il cliente ha assunto il ruolo centrale.

La competizione si gioca quindi sulla velocità e sull’agilità, che impongono una macchina operativa ben funzionante, ma soprattutto sulla capacità di adeguare e riprogettare i modelli di business, senza timore di sbagliare. Numerosi, infatti, sono gli esempi di aziende che hanno preferito attendere gli eventi piuttosto che cambiare: non si possono dimenticare i casi di Nokia e Kodak, giusto per fare qualche nome.

Per abilitare la transizione verso il modello clientecentrico servono certamente i dati e gli strumenti per analizzarli, ma soprattutto uno straordinario cambiamento culturale da parte dell’intera azienda, a partire dal Top management.

È in questo scenario che opera Gianluca Santarelli con la sua Eureka!, il cui impegno è realizzare progetti di consulenza e formazione per la crescita delle persone e delle organizzazioni.

Gianluca Santarelli

Dove e quando è nata la sua passione per le Risorse Umane?

Ho deciso che avrei lavorato in ambito HR già al tempo dell’università: sono uno dei ‘pionieri’ di Scienze dell’Educazione, anno accademico 1992-93, in Università Cattolica a Milano. All’epoca era una sorta di esperimento voluto dal grande Cesare Scurati: far convergere Pedagogia, Psicologia e Sociologia in un corso di laurea con focus sull’educazione e formazione continua degli adulti, un campo innovativo e poco conosciuto. Essendo figlio di imprenditori in tutt’altro ambito, è inutile dire che i miei genitori mi avrebbero voluto al loro fianco.

 

Nonostante abbia voluto seguire la sua vocazione, alla fine imprenditore lo è diventato per davvero…

Eureka! è nata nel 1999, praticamente nel salone di casa mia (Box 1). Durante gli studi universitari collaboravo già con alcune training company che, pur avendo ‘brand’ e posizionamento, erano, per certi aspetti, obsolete e poco innovative. Volevo creare un’azienda che sviluppasse ciò che vedevo non funzionare nelle altre realtà. In particolare, volevo superare il concetto di formazione tentative, a catalogo, che, 20 anni fa, rappresentava la proposta prevalente; in ambito di sviluppo manageriale e leadership, così come in ambito sales, pochi erano gli interventi mirati e verticali su popolazioni specifiche, mentre prevaleva un approccio ‘tecnicistico’, strumentale alla formazione manageriale, finalizzata a trasferire tecniche più che a sviluppare attitudini.

Da esperto nei processi formativi, approcciando il mondo delle business school, fui colpito dal fatto che vi lavoravano professionisti dai background più disparati, che spesso avevano abbracciato la professione per puro caso, trasformandola poi in una sorta di missione; ebbi quindi l’intuizione di mettere insieme un gruppo di lavoro, il più possibile eterogeneo, per proporre al mercato una soluzione veramente innovativa.

Non per nulla il claim di Eureka! è: “Differenti per formazione”. Oggi in Eureka! Consulting, diretta da Simone Oliva – già Cegos, Franklin Covey e Manpower – abbiamo con noi ingegneri, psicologi con le massime certificazioni internazionali in Analisi Transazionale (AT), economisti, sociologi, filosofi, scienziati dell’educazione e chi proviene dal vecchio percorso di pedagogia.

 

Perché non credeva nella formazione a catalogo?

L’ho sempre considerata poco efficace e di basso impatto; allo stesso modo sono convinto della limitata utilità degli interventi stand alone. Da esperto comportamentale so bene che chiedere alle persone, ai manager, di cambiare comportamenti ormai cristallizzati è una sfida difficile; per farlo le persone non hanno bisogno di corsi, devono essere guidate con percorsi formativi disegnati su di loro.

Per realizzare la giusta formazione non si può prescindere dall’analisi approfondita della popolazione di riferimento: non ci accontentiamo di raccogliere le informazioni dalla Direzione Generale o dalla Direzione del Personale, intervistiamo le persone su cui interveniamo (tutta la popolazione aziendale oppure, in caso di aziende con tanti collaboratori, coinvolgiamo un campione rappresentativo, che non è mai inferiore al 25% del totale). Solo dopo le interviste costruiamo la nostra proposta.

 

Come funziona la fase di interviste?

Ovviamente abbiamo delle linee guida da seguire, ma non utilizziamo questionari standard; piuttosto impostiamo gli incontri come un confronto aperto: in questo modo le persone si sentono molto coinvolte, perché capiscono il nostro messaggio di voler costruire un percorso dedicato proprio a loro. Il nostro proposito è chiaro: chiediamo collaborazione nel creare le nostre soluzioni formative, spiegando che non si tratta di un’imposizione né da parte dell’azienda né degli esperti esterni.

L’obiettivo è creare un’alleanza per abbattere le resistenze al percorso formativo. Questa modalità operativa caratterizza il 90% dei nostri interventi. Siamo anche in grado di soddisfare la richiesta di progettazione di soluzioni a catalogo, dove necessario, come fatto di recente con un’azienda che ci ha commissionato i percorsi formativi per l’Academy interna, ma non è il nostro core.

 

Qual è lo stato di salute della formazione?

Negli ultimi 10 anni, i budget si sono assottigliati e il ricorso alla formazione finanziata è ormai la regola. Inoltre, se in altri Stati europei ci sono normative in merito alla formazione obbligatoria, in Italia valgono solo per quella tecnica. A questo si aggiunge la sfida di trattenere le persone in aula e di ottimizzare i costi.

Ma la formazione deve essere considerata un investimento e non una spesa: altrimenti io stesso dissuado il cliente dall’implementarla, perché i costi, per definizione, si devono tagliare; se, invece, la formazione è considerata un investimento, perché è una leva per generare competenze e profitto, non c’è ragione per non farla, a maggior ragione nei momenti di crisi. Chi crede nella formazione ha sempre investito, gli altri – la maggioranza – hanno preferito supplire al calo di investimenti con percorsi di elearning, formazione in pillole, ecc.

 

Perché crede che l’elearning non sia efficace?

Formazione tecnica, compliance e aggiornamenti possono e devono essere gestite internamente, diverso è il caso della formazione finalizzata alla modificazione di comportamenti e processi: per esperienza, dico che sono meno efficaci gli approcci interni, spesso autoreferenziali, rispetto a quanto può garantire un punto di vista esterno e qualificato.

Rispetto all’efficacia della comunicazione, non sono io a dover spiegare la differenza di valore tra un intervento vis a vis e uno virtuale. Sono numerosi gli studi che dimostrano il gap di potenziale a favore del primo e non è un caso che per le questioni importanti, nonostante i mezzi che abbiamo a disposizione grazie alla Rete, le persone continuino a investire tempo e denaro per incontrarsi di persona.

 

Quali sono i Kpi che indicano che la vostra modalità formativa funziona?

Il nostro metodo responsabilizza le persone che sono chiamate a mettere in pratica, o quanto meno a testare, le strategie, per poi valutare se hanno funzionato, se sono state applicate o meno e, in questo caso, capirne i motivi. Intanto i responsabili, informati delle varie attività, possono diventare coach dei collaboratori e supervisionare il raggiungimento degli obiettivi, mentre i trainer di riferimento restano sempre disponibili.

Si tratta di un approccio ‘triangolare’ che mette in connessione utente, trainer e committente. Quest’ultimo, spesso, è il responsabile gerarchico (per esempio l’head of di un vertical), quasi mai è l’HR che per noi rappresenta il committente istituzionale, ma non viene coinvolto nel processo.

 

Perché è convinto che sia fondamentale puntare sulla formazione?

La nostra attenzione è focalizzata sul benessere delle persone. Riteniamo che i risultati economici di un’azienda siano la diretta conseguenza di come vivono i collaboratori all’interno di essa e degli strumenti che hanno per raggiungere gli obiettivi aziendali. Ricordo che 20 anni fa chiesi all’Amministratore Delegato di una banca come stessero i suoi collaboratori. Mi guardò stranito, domandandosi il motivo per il quale volessi affrontare con lui quell’argomento. Il nostro approccio si basa sull’offrire ai dipendenti la possibilità di migliorare la loro professionalità.

Naturalmente leghiamo il loro benessere agli obiettivi di business, ma non ci focalizziamo su questo aspetto. E crediamo così profondamente nei nostri mezzi che siamo pronti a lavorare in modalità success fee, scommettendo con il committente. Finora non abbiamo mai perso una scommessa.

 

Visto che prendersi cura delle persone conduce a risultati di business, come si prende cura Eureka! dei suoi collaboratori?

I miei primi clienti sono i collaboratori e partner di Eureka! Tutte le persone che collaborano con noi sono inserite in percorsi di specializzazione o supervisione, per tutta la durata della loro permanenza in azienda. A cominciare dal Percorso di Analisi Transazionale Organizzativa, che è il nostro marchio di fabbrica. Siamo sempre molto attenti all’innovazione e curiamo lo sviluppo di tutti, inserendo ogni persona in cammini di crescita costante, anche per evitare che qualcuno – pur avendone i requisiti – non si senta ‘arrivato’ o, peggio, si adagi. Anche il personale di staff, assistenti, back office, frequenta la scuola di AT, per respirare la cultura che promuoviamo e per condividere lo stesso linguaggio.

 

A proposito di AT, come ne siete diventati un punto di riferimento?

Oggi, sul tema, siamo il riferimento in Italia e uno dei più importanti in Europa per l’AT Organizzativa. Il sistema Paese è da sempre forte sul clinico, meno su counseling e educational, poco o niente sull’organizzativo. Nel 2012, abbiamo fondato Eureka! Academy con la scuola triennale di AT, oggi diretta da Ugo De Ambrogio, già Presidente dell’IRS con trentennale esperienza e le massime certificazioni internazionali in AT, scuola nell’ambito della quale è stato sistematizzato un master universitario in AT organizzativa, finora unico al mondo. Nel 2014 abbiamo organizzato il primo convegno europeo in quest’ambito, che ha visto la partecipazione dei principali Paesi europei.

 

Perché ritiene che l’AT sia utile alle aziende?

L’AT dà modo di lavorare in profondità sulla struttura di personalità dell’organizzazione. Il cambiamento, come è noto, può far paura, ma a volte è necessario e non è scontato farlo capire a manager e imprenditori. Per questo spieghiamo strategie, processi e comportamenti dell’AT con un linguaggio mirato e adeguato al nostro interlocutore. Questa scelta lascia un’impressione molto positiva e non è raro trovare chi si appassiona a questi temi e sceglie di approfondirli per conto proprio, magari iscrivendosi al nostro master.

A gestire la formazione è il nostro corpo docente interno, composto da specialisti clinici e organizzativi, tutti qualificati con almeno il secondo livello di certificazione internazionale. Oltre alla convenzione con il Centro di Ricerca dell’Università Cattolica di Milano, abbiamo stipulato un accordo con l’Unicollege di Mantova, che ci ospita per lo svolgimento degli esami del master.

 

Che opinione ha della maturità manageriale delle aziende italiane?

Facendo riferimento ai nostri interlocutori – ci rivolgiamo soprattutto ai manager di aziende multinazionali e agli imprenditori delle Piccole e medie imprese (PMI) – ammetto che l’Italia, purtroppo, sconta la mancanza di una vera cultura manageriale: questo è un limite in un Paese formato principalmente da PMI.

Il tema chiave in Italia in questa fase è il passaggio generazionale: molti dei nostri imprenditori sono figli del Dopoguerra: sono i self made men, che hanno costruito le proprie imprese coinvolgendo successivamente anche i figli, salvo però non responsabilizzarli in modo adeguato. E per questo non è inusuale imbattersi in 50enni pronti a ereditare le aziende, senza tuttavia possedere una concreta esperienza di gestione. Nelle grandi imprese lo scenario non è poi così diverso. Esiste un management ‘datato’, spesso obsoleto, e una fascia giovane che spesso soffre pressata sull’operativo.

 

In questo numero della rivista affrontiamo il tema della leadership: quale pensa sia il miglior modello?

Il miglior modello di leadership è quello che si costruisce sull’organizzazione, frutto del suo sistema di valori e competenze, in grado di avere reale impatto in termini di allineamento della people strategy alla business strategy. Un modello di leadership ben delineato è fondamentale per indirizzare al meglio le performance aziendali. È diretta emanazione del sistema di valori dell’organizzazione.

Determina come auspicabilmente devono comportarsi i leader e quali sono le competenze chiave per garantire i risultati dell’organizzazione. Consente di impostare lo stile di business aziendale e definisce la cultura aziendale ‘dall’alto’. Costruire un corretto modello di leadership significa rispondere ad alcune domande chiave in grado di definire le capacità di leadership e le competenze di cui l’organizzazione ha bisogno ora e per il futuro. Quali sono i nostri obiettivi futuri? La nostra strategia è adeguata? Quali sono le nostre attività davvero importanti? Quali comportamenti ci aiuteranno a raggiungere i nostri obiettivi?

 

Come aiutate le aziende a gestire questi aspetti?

Proponiamo percorsi di formazione specifica per chi è impegnato sul campo e percorsi ad hoc per i manager, la cui vera competenza da sviluppare è la gestione delle persone, di gran lunga l’aspetto più difficile per le organizzazioni, perché significa cambiare i propri comportamenti e definire obiettivi precisi per valutare le persone. Sulla carta lo fanno tutti, ma sono pochi quelli che lo applicano per davvero. Eppure se i manager che sono soliti accentrare le decisioni imparassero a delegare, porterebbero le loro organizzazioni a fatturare almeno cinque volte di più, lavorando un quinto di quanto lavorano.

 

Quali sono gli elementi che ogni HR Manager deve conoscere e implementare nella propria attività?

Il ruolo della Direzione del Personale è quello di offrire nuovi modelli organizzativi, in discontinuità con i ruoli tradizionali. Per questo è importante che gli HR Manager si sappiano far affiancare da coach e consulenti di fiducia e stimolino anche gli altri manager dell’azienda a fare altrettanto. Oggi tra le nuove sfide c’è l’implementazione di innovative forme di lavoro come lo Smart working, ma anche l’ingresso nelle organizzazioni dei Millennial.

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