La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Mansione che vieni, mansione che vai (è ciò che accadrà a impiegati e operai)

, ,

di Ernesto Di Seri

Da luglio più posti ho dovuto cambiare
motivo? L’HR sta provando a applicare l’appena emanato Dlgs. faccio un “Tour”
di mansioni, non son mai le stesse!!
Mi chiedo, basito, “ma può proprio farlo?”
M’assilla il quesito, pertanto ne parlo con l’ufficio vertenze del mio sindacato
che, pronto, risponde: sai, tutto è cambiato
da “stretto” che era più “largo” ora è
del Codice il 2103
Se varia l’assetto d’organizzazione
e tal fatto incide sulla tua posizione
e lecito che ti si sposti qui e là
ma il salario base non si contrarrà.
Né posson ridurti la categoria
e neppure il livello (almeno in teoria).
Però il quadro muta se in conciliazione
in sede “protetta”, modificazione
siffatta dovessi, cosciente, accettare
, allora ti possono demansionare.
Cala pure il salario, con l’inquadramento
a sol condizione che tu sia contento
perché in questo modo la tua occupazione
conservi, evitando col cambio mansione
un licenziamento per g.m.o..
(quindi salvi il lavoro pur perdendoci un po’)
se c’è un tuo “interesse” al declassamento
non è nullo il patto di demansionamento
La sintesi, alfine, sul piano formale
è questa: se c’è un presupposto legale
tra quelli citati nell’articolo 3
del Dlgs, l’effetto per te
è che tutta l’azienda su e giù girerai
e in più posizioni via via opererai
De Andrè chioserebbe “Preparati, ormai
mansione che vieni, mansione che vai
sarà il tuo futuro, ti ci abituerai
e con te molti altri impiegati e operai”

 

Se il grande Fabrizio De André fosse ancora qui a deliziarci (ma nel contempo a farci riflettere e commuovere) con le sue ballate, potesse rieditare il suo noto album Storia di un impiegato in forma di remake adattato ai tempi moderni e decidesse di farlo ispirandosi alle recenti riforme del diritto del lavoro, è probabile che non perderebbe l’occasione per inserirvi, così riformulata, una delle sue canzoni più belle e struggenti, dipingendo un quadretto musicale ispirato ai possibili effetti per il lavoratore (particolarmente impattato, potenzialmente, proprio se appartenente alla vasta categoria professionale impiegatizia) che risultasse destinatario dei nuovi meccanismi di “mobilità professionale” delineati dall’articolo 3 del Decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81. Si tratta della norma che, a decorrere dal 25 giugno 2015, ha sostituito l’articolo 2103 del Codice Civile, articolo da molti (comunque certamente dal Governo e prima ancora dal Parlamento, visto che con la legge 10 dicembre 2014 n. 103 quest’ultimo aveva espressamente delegato l’Esecutivo a intervenire in tal senso) ormai reputato una sorta di ‘ferrovecchio’ della nostra legislazione giuslavoristica, essendo risalente al lontano 1970. Fu infatti lo Statuto dei lavoratori a definire, in quell’anno, attraverso il proprio articolo 13 il testo che è rimasto poi immutato, per l’appunto, fino a pochi mesi fae che ha rappresentato una pietra miliare nell’ambito delle disposizioni di tutela del lavoratore, blindandone sostanzialmente la posizione lavorativa nel senso di privilegiare, quale regola tendenziale di base, la ‘fissità’ della medesima rispetto alle ‘voglie’ di modifiche (magari continue…) che, invece, si presumevano più gradite da parte del datore di lavoro. Tale presumibile maggior gradimento datoriale per un’amplissima mobilità del lavoratore trovava teorico fondamento, peraltro, non tanto in un ipotetico desiderio aprioristico di riaffermare una supremazia teorica sul proprio collaboratore legato da un vincolo tecnico di subordinazione, quanto nella volontà (e spesso necessità) di adeguarne la specifica collocazione lavorativa alle sempre più mutevoli esigenze aziendali e ai correlati interventi innovativi sull’organizzazione complessiva dell’impresa nelle sue componenti amministrative e produttive. Ma pure relazionali, nel senso della possibile influenza reciproca – a volte positiva e a volte no – del posizionamento del lavoratore, in un dato contesto spaziale e temporale, nell’ambito di una collettività di persone non sempre facile da gestire e organizzare in modo proficuo per l’impresa e con soddisfazione da parte dei lavoratori stessi. Che questa discrasia tra le reciproche esigenze e aspettative dei due contraenti rappresentasse una potenziale causadi conflitti anche dirompenti e che quindi fosse doveroso per il legislatore dettare una disciplina che definisse preventivamente quali fossero entità, dimensioni e condizioni tecniche da rispettare per indirizzare correttamente il potere gestionale del datore di lavoro sotto questo profilo (onde non renderlo eccessivamente esteso a scapito della tutela del ‘sottoposto’ a tale potere) era ovviamente già molto chiaro al legislatore statutario, che, si può ormai asserire con assoluta tranquillità, optò consapevolmente per valorizzare il principio del favor praestatoris portandolo a una delle vette più alte mai raggiunte in questa materia, irrigidendo oggettivamente la normativa (seppur per comprensibilissime ragioni etico-sociali e di riequilibrio del gap naturale tra le parti). Questo intento fu perseguito al punto da tutelare addirittura con la sanzione della ‘nullità’ ogni possibile patto contrario al disposto della norma, pur quando accettato (se non proposto) dal lavoratore in piena capacità di intendere e di volere e ipoteticamente finalizzato alla tutela di un suo precipuo interesse.

 


Mobilità ed ‘equivalenza’
Alla luce di quanto appena esposto risultano evidenti alcuni aspetti. Per esempio, il vecchio testo dell’articolo 2103 consentiva la mobilità professionale del lavoratore, il quale poteva essere adibito, oltre alle mansioni per le quali era stato assunto, anche a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse successivamente acquisito o a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte (senza alcuna diminuzione della retribuzione) oppure elevato, per obbligo di legge, a mansioni superiori (con diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta) dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi, fatto salvo il caso in cui avesse sostituitoun lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ipotesi in cui tale elevazione definitiva non sarebbe invece scattata. Tuttavia si trattava sostanzialmente di mutamenti tutto sommato circoscritti e soprattutto di difficile applicazione pratica, come attestato dal copioso contenzioso giurisprudenziale sviluppatosi relativamente al concetto tecnico di ‘equivalenza’. Questa problematica era stata solo in parte scalfita da tre aspetti. Il primo riguarda la crescente evoluzione delle posizioni della magistratura verso una lettura meno riduttiva della norma – in particolare nei casi in cui il demansionamento fosse giustificabile come extrema ratio – per mantenere in forza il lavoratore, altrimenti destinato a essere licenziato per la soppressione della posizione lavorativa cui era addetto. Il secondo riguarda l’apertura a peculiari deroghe che alcuni contratti collettivi nazionali di lavoro più avanzati avevano tentato di approntare in tal senso. Infine c’è l’emanazione della legge 14 settembre 2011 numero 148 che con l’apposito articolo 8 aveva affidato all’autonomia collettiva (variamente articolata nei suoi multipli livelli di operatività a seconda delle situazioni) la potestà derogatoria anche a disposizioni dilegge o di Ccnl regolanti la materia della gestione del contratto individuale di lavoro sotto vari aspetti, ivi compreso quello delle mansioni.

La virata verso l’up and down
Peraltro, una serie di ragioni di politica sindacale e di tecnica negoziale hanno di fatto ridotto ai minimi termini la reale incidenza della legge 148 sulla tematica in esame, pur avendo concettualmente contribuito, come acutamente osservato da qualche commentatore, a intaccare seriamente quel mito dell’inderogabilità in peius e dell’assoluta uniformità comportamentale all’interno delle imprese sul territorio nazionale saldamente presidiato dalla testuale formulazione dell’articolo 2103 in commento. A ciò si aggiunga che l’acuirsi nell’ultimo quinquennio della crisi globale dei mercati e le conseguenti ripercussioni sia sulle tendenze dell’economia sia sui modelli organizzativi da adottare nei luoghi di lavoro – sempre più ispirati al ‘totem’ della massima flessibilità ed elasticità possibili della prestazione (richiedenti una sorta di automatico adeguamento ‘a fisarmonica’ di ruoli e compiti specifici del singolo addetto) – hanno dato la spinta definitiva al legislatore per indurlo a virare, almeno nelle intenzioni, verso un sistema giuridico di up and down molto più proficuo per il datore di lavoro. Questo sistema, peraltro, di per sé non sarebbe da presumersi aprioristicamente negativo per il lavoratore, che potrebbe così reperire nuovi spazi per incrementare la propria professionalità all’interno dell’organizzazione ed eventualmente la propria futura spendibilità addirittura all’esterno, vista la contemporanea evoluzione complessiva del mercato del lavoro.

Verso la liberalizzazione della normativa
Questa premessa era doverosa per passare a una prima sommaria analisi delle novità contenutistiche di maggior rilievo dell’articolo 3. Ferma restando, però, la rispettabilità di qualsivoglia opinione teorica sulla bontà di questa trasformazione di una pregressa rigidità legale verso una crescente liberalizzazione estrema della normativa. Anche se, probabilmente, tanto estrema quest’ultima non pare manifestarsi nella realtà se consideriamo, sotto il profilo della mera formulazione tecnica – come si tenterà di evidenziare di seguito – il permanere di non trascurabili vincoli al potere gestionale del datore di lavoro e alla facoltà di applicazione unilaterale delle nuove disposizioni contenute nell’articolo 3 del decreto legislativo 81 e il ripetuto rimando alla contrattazione collettiva o comunque al rilievo dell’assistenza sindacale. In linea di massima si può partire già dal testo del primo comma dell’articolo per acquisire contezza della volontà del Governo di dare un forte segnale di discontinuità con la previgente disciplina, visto che non ci si limita a ribadire che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, bensì si aggiunge che può anche essere adibito a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte: espressione che attesta indubitabilmente il superamento strutturale del criterio della necessità di equivalenza delle mansioni che l’articolo 2103 poneva come elemento imprescindibile per giustificare legalmente, a pena di nullità, ogni spostamento in ‘orizzontale’. Si è quindi reso lecito, ora, qualsiasi mutamento, anche di ampio spettro, purché ancorato al rispetto del medesimo livello di inquadramento, come definito dalla contrattazione collettiva applicabile e della stessa categoria legale (lasciando peraltro impregiudicata la possibilità di attribuire al lavoratore anche un inquadramento superiore). Il suddetto segnale di discontinuità si palesa soprattutto sotto il profilo della sopravvenuta irrilevanza, a questo punto, dell’elemento sul quale maggiormente si erano incardinati i rischi di contenzioso nel previgente regime fondato proprio sull’equivalenza così rimossa, cioè la pregnanza dell’analisi del concreto iter professionale pregresso, come dipanatosi nel tempo quale primario fattore di indagine da parte del giudice per procedere alla valutazione della legittimità del mutamento di mansioni. La legittimazione per il datore di lavoro ad attivare unilateralmente tale mutamento era infatti riscontrabile solo se il riposizionamento del lavoratore fosse stato tale da consentire ‘in astratto’ l’esplicazione, anche nella nuova collocazione lavorativa, del patrimonio di professionalità ed esperienza maturato nella posizione precedente. Questo era, in sintesi, il ragionamento che veniva svolto dalla parte preponderante della dottrina e della giurisprudenza che si cimentavano nell’interpretazione del termine ‘equivalenza’. Un fondamentale presupposto di questo nuovo approccio metodologico teso a superare il problema dell’equivalenza è desumibile pure dal fatto che lo stesso articolo 3 non prevede espressamente un connesso obbligo formativo generale nei confronti del lavoratore spostato, anzi sottolinea non solo come il mutamento di mansioni vada accompagnato dalla formazione sulle nuove mansioni solo ‘ove necessario’. L’espressione è comunque molto ambigua nella sua sinteticità e genericità, ma certamente escludente la configurabilità di una sorta di diritto naturale del lavoratore a beneficiare di apposite azioni formative in ogni caso di modifica orizzontale della sua posizione professionale, ma soprattutto come non sia configurabile alcuna ipotesi di nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni pur nelle ipotesi in cui la formazione possa essere reputata necessaria e ciò nonostante non sia attuata a cura del datore di lavoro onerato in tal senso.

Un’inversione di tendenza
Si tratta quindi di un’inversione di tendenza di portata tale che in incide proprio sul punto più dolente della vecchia disciplina, da far ragionevolmente immaginare che il legislatore abbia così rimodulato la normativa al primario fine di privilegiare due aspetti. Da un lato l’esigenza di garantire il diritto del datore di lavoro a soddisfare al meglio le proprie esigenze in un contesto di mercato sempre più dinamico e turbolento rispetto alla tutela statica della ‘stabilità’ della posizione del prestatore d’opera in azienda (pur se maturata, magari, all’esito di un percorso professionale del quale tale posizione aveva rappresentato il punto d’arrivo ideale per la soddisfazione di un importante interesse del lavoratore medesimo, perciò concettualmente indisponibile a ulteriori mutamenti di ruolo). Dall’altro, per converso, a stimolare comunque nel destinatario del cambiamento la volontà di rimettersi costantemente in gioco quale elemento propulsivo per cogliere l’occasione di arricchire il proprio bagaglio di esperienza e competenza, nell’ottica futuribile di un possibile utilizzo prossimo di tale bagaglio anche al di fuori dell’impresa in cui si trovi occupato.

 

 

Livello inferiore, medesima retribuzione
Alquanto significativa del nuovo esprit des lois è pure la legittimazione alla modifica unilaterale di mansione attribuita al datore di lavoro dal comma 2 dell’articolo 3 in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, legittimazione che rende automaticamente possibile l’adibizione del medesimo anche a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, con l’accortezza, però, come precisa la legge, di assicurare nel contempo la conservazione della categoria legale, del livello di inquadramento precedente nonché del trattamento retributivo percepito prima della variazione. Qui qualcuno potrebbe forse interrogarsi circa una certa ‘mancanza di coraggio’ del legislatore delegato nel trasfondere in decreto le linee guida dettate all’articolo 1 comma 7 lettera ‘e’ della legge delega. Infatti, se da una parte la “modifica degli assetti organizzativi aziendali” appare una definizione piuttosto ‘lasca’ – tale da ricomprendere in nuce qualsiasi cambiamento dell’organizzazione aziendale – per converso non sono consentiti interventi rimodulativi su altri elementi fondamentali del trattamento economico/normativi del destinatario dello spostamento. Una domanda a questo punto sorge spontanea: la modifica deve essere strutturale o ne basta una transitoria? Dal tenore del comma non èdato letteralmente desumere alcuna espressa necessità di strutturalità o almeno di durata molto prolungata nel tempo della modifica. La legge delega, però, parlava di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione, usando tre terminologie identiche alle titolazione delle tre corrispondenti ipotesi di ricorribilità alla cassa integrazione guadagni straordinaria nel regime allora operante (precedente quindi alla recentissima riforma degli ammortizzatori sociali attuata con il dlgs 14 settembre 2015 n.148) regime che inquadrava le suddette tre ipotesi tra quelle presupponenti una connotazione ormai strutturale delle problematiche da fronteggiare tramite l’utilizzo di quegli specifici ammortizzatori sociali. A prescindere da questa possibile discussione tecnica, si può in ogni caso presumere che dovrà essere quanto meno riscontrabile una qualche forma di nesso causa-effetto tra la modifica e lo specifico impatto sulla posizione del lavoratore in termini di giustificabilità dell’intervento che lo coinvolge. Va altresì rammentato che il mutamento deve essere comunicato per iscritto: qui ci si potrebbe al limite interrogare sull’opportunitànecessità, nel silenzio della norma, di integrare la comunicazione anche con la motivazione, almeno per sommi capi, del mutamento. È vero che dovrebbe valere l’antichissimo brocardo secondo il quale il legislatore, ubi voluit, ibi dixit, ma è parimenti vero che, soprattutto nei casi di agevole dimostrabilità di un serrato legame concreto di conseguenzialità tra modifica degli assetti organizzativi e ripercussione sulla posizione del singolo addetto da spostare, la trasparenza di una comunicazione così integrata finirebbe per far ragionevolmente presupporre l’effettiva sussistenza del nesso di causalità in questione.

Elementi ‘accessori’ legati alla mansione
Per quanto concerne invece la modificabilità anche del trattamento retributivo, in questo caso essa è senz’altro legittima, ma limitata ai soli elementi ‘accessori’ della retribuzione intrinsecamente collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa; è quindi logico che essi vengano meno qualora tali particolari modalità non facciano più parte del coacervo delle modalità di esecuzione della nuova prestazione richiesta dopo il mutamento di mansioni. I successivi commi 4 e 5 ampliano potenzialmente l’ambito di operatività globale della nuova disciplina ammettendo che ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni appartenential livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possano essere previste dai contratti collettivi. Si può dunque asserire in proposito che, similmente a quanto detto in precedenza, troverebbero nella fattispecie applicazione le disposizioni riguardanti la comunicazione per iscritto e l’obbligo di conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo pregresso: disposizioni non a caso specificamente ancora assistite dalla sanzione della nullità di ogni patto contrario. Non potrà peraltro sfuggire all’interprete più attento che c’è una potenziale ‘zeppa’ all’utilizzo troppo superficiale del nuovo articolo 3. Si tratta, paradossalmente, dal fatto che la più ampia facoltà di esercitare lo ius variandi da parte del datore potrebbe, per assurdo, indurre il giudice ad ampliare a dismisura l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità oggettiva del cosiddetto repechage del lavoratore altrimenti prossimo destinatario di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (per esempio proprio per soppressione di mansione); ovviamente qualora si reputi che tale onere sia rimasto sostanzialmente immutato nonostante le recenti modifiche post Jobs Act della disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi, punto sul quale persistono comunque tra gli operatori del diritto valutazioni ancora divergenti e che è improbabile possa sfuggire all’analisi della giurisprudenza negli eventuali contenziosi futuri sull’argomento.

Accordi individuali
Un cenno particolare, in questo quadro complessivo di novità, va inoltre riservato alla previsione del comma 6 dell’articolo 3, trattandosi di disposizione accompagnatoria sì, ma soprattutto parzialmente derogatoria, di quanto contenuto nei commi precedenti. Tutto questo provocherà probabilmente un non trascurabile effetto magmatico sulla struttura anche psicologica – e non solo tecnica – delle relazioni sui luoghi di lavoro, nelle relazioni industriali e forse anche nei rapporti interpersonali tra datore di lavoro e lavoratore, soprattutto se il primo assorbirà in pieno questa nuova logica ‘dinamica’ e il secondo si abbarbicherà invece a una tradizionale visione ‘statica’ del suo inserimento nell’organizzazione d’impresa. Viene infatti introdotta una specie di “procedura oggettivamente qualificata” per consentire alle parti del contratto individuale di lavoro di oltrepassare le colonne d’Ercole sopra riepilogate. In questo modo si estende al massimo il loro potere di auto disciplinare il contenuto del rapporto in tema di mansioni, purché il tutto avvenga (oltre che ovviamente con il loro consenso liberamente formatosi) in determinate sedi e con certe modalità, tutte comunque caratterizzate dall’intervento di soggetti terzi abilitati a consentire ciò che altrimenti neppure la nuova normativa permetterebbe di fare, da soli, a datore di lavoro e lavoratore, cioè mutare pressoché completamente pelle al loro rapporto in termini di trattamento sia normativo sia – questa è la novità essenziale dettata dal comma 6 – economico.

Il suddetto comma dispone che nelle sedi di cui all’articolo 2113 quarto comma, Codice Civile o nelle cosiddette sedi di certificazione possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Solo in queste particolari sedi ‘protette’, pertanto, sarà d’ora in poi legalmente lecitostipulare patti modificativi, non a rischio di nullità, che ricomprendano tutto l’ensemble oggetto di questo commento.

Modifiche in peius per sollevare il posto di lavoro
Si tratta, quindi, il mutamento di mansioni, che possa toccare, nella fattispecie, anche la categoria legale, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione, ma alla peculiare condizione che le modifiche in peius contemporanee di tutti questi elementi siano dovute alla necessitàopportunità di operare nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Ne consegue l’immediato corollario sia dell’esigenza di dare in qualche modo conto – all’interno del patto di demansionamento – dell’esistenza di tale interesse e di almeno un elemento (la lettura disgiuntiva delle tre condizioni pare al momento la più corretta) tra quelli appena citati, sia della facoltà, coerentemente riconosciuta ex lege al lavoratore, di poter usufruire dell’assistenza tecnica (a ben vedere, non solo, data la particolare delicatezza anche morale della situazione che talvolta potrebbe manifestarsi) di un rappresentante sindacale di sua fiducia, ovvero di un avvocato o di un consulente del lavoro (dal lato datoriale, ovviamente, per quanto non espressamente indicato dalla legge, sarà sempre possibile beneficiare dell’assistenza dell’Associazione imprenditoriale cui si è iscritti). Solo per completezza d’informazione, dato il minor rilievo obiettivo della modifica, va infine rammentato che, nell’inverso caso di assegnazione a mansioni superiori, in base al comma 7, il lavoratore che mantiene il vecchio diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, può manifestare la sua volontà contraria a che l’assegnazione diventi definitiva dopo che abbia svolto le mansioni superiori assegnategli per sei mesi continuativi (prima erano tre) o per il diverso periodo fissato dai contratti collettivi. Questa particolare considerazione della volontà del lavoratore si presume sia ispirata all’intenzione del legislatore di non attribuire effetti automatici ipoteticamente sgraditi al lavoratore per il solo fatto di essersi di fatto cimentato, per un certo periodo di tempo, in attività di più elevato contenuto professionale. In pratica è l’applicazione pro-lavoratore del ‘preferirei di no’, famoso tormentone dello scrivano Bartleby nel racconto di Herman Melville. Ulteriore precisazione: la differenza del vecchio articolo 2103 il diritto all’assegnazione ‘definitiva’ a mansioni superiori non matura nel caso di sostituzione di altro lavoratore in servizio.

 

 

Conclusioni
Cosa dire, in conclusione, sul tema affrontato in questo contributo e troppo spesso sintetizzato solo con il termine, senz’altro efficace ma decisamente limitativo, di ‘demansionamento’, espressione lessicalmente idonea a far istintivamente porre in primo piano gli aspetti di ipotetico regresso dell’articolo 3 del dlgs 81/2015 rispetto a una specie di ‘età dell’oro’, almeno per il lavoratore, costituita dall’articolo 2103 ante riforma?
Certo, la nuova normativa, come recentemente argomentato da alcuni studiosi, non può probabilmente dirsi scevra da qualche difetto di formulazione tecnica o tale da non dare adito pure a qualche dubbio di incostituzionalità (per contrasto in primis con l’articolo 77 della Costituzione), ma ciò non pare costituire una ragione sufficiente per giungere a una immediata valutazione negativa prima ancora di monitorarnel’effettivo impatto sulle realtà aziendali e, soprattutto, la sua adattabilità concreta, nella gestione aziendale quotidiana, a contemperare adeguatamente i reciproci interessi in gioco (quello dell’impresa all’utile impiego del personale con quello del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche”, come recita l’art. 1 comma 7 lettera e) della legge delega). Va comunque tenuto conto, in proposito, dell’impossibilità, allo stato, di configurare con un minimo di certezza quali potranno essere i futuri orientamenti della giurisprudenza che dovrà presto attrezzarsi ad affrontare ex novo una tematica profondamente modificata, dopo ben nove lustri dall’emanazione dallo Statuto dei lavoratori, in senso riduttivo della portata di quel principio ‘mitico’ dell’inderogabilità in peius su cui si fondava l’articolo 2103 e di cui pare obiettivamente difficile immaginare una rinascita assoluta per via giudiziaria, anche in virtù della mutazione genetica del contesto economico-sociale di riferimento (“Quantum mutatus ab illo”, asserirebbero saggiamente i nostri avi latini). Ecco quindi che un ruolo importante di accompagnamento indolore del cambiamento tentato dal legislatore potrebbe forse essere proficuamente svolto da una contrattazionecollettiva modernamente e pragmaticamente orientata, in tutte le sedi competenti, verso un assennato perseguimento di un’efficace azione di bilanciamento equilibrato di posizioni che parrebbe, a maggior ragione, indispensabile quando bisogna affrontare temi ‘vecchi’ con strumenti ‘nuovi’; soprattutto se tale azione collettiva risultasse in parallelo supportata da analoga linea di condotta, nelle sedi conciliative ‘protette’ ex articolo 2113 quarto comma del Codice Civile o dinanzi alle apposite Commissioni di certificazione, di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella fase di stipulazione dei nuovi ‘patti in deroga’ sul mutamento di mansioni ora legittimati, come già accennato, dal sesto comma del nuovo articolo 3. Se ciò dovesse effettivamente accadere, anche la parola ‘demansionamento’ finirebbe probabilmente per assumere man mano un significato ben diverso da quello attuale e soprattutto si sarebbe compiuto un decisivo passo in avanti verso un’organizzazione del lavoro sempre rispettosa dei diritti del lavoratore e dei suoi interessi professionali, ma nel contempo più attenta anche all’evoluzione delle necessità tecniche, organizzative e produttive di imprese costantemente esposte alle mutevoli influenze esterne di un mercato sempre più competitivo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Cookie Policy | Privacy Policy

© 2019 ESTE Srl - Via Cagliero, 23 - Milano - TEL: 02 91 43 44 00 - FAX: 02 91 43 44 24 - segreteria@este.it - P.I. 00729910158
logo sernicola sviluppo web milano

Trovi interessanti i nostri articoli?

Seguici e resta informato!