La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Maternità come sviluppo dell’individuo. Benefici per persone, aziende e società

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Se digitiamo su Google la parola “maternità”, il motore di ricerca ci restituisce subito, tra le parole correlate, “maternità chi paga” e “maternità e lavoro”. Subito sotto, “maternità e lavoro a tempo indeterminato”; “maternità e assegno”; “maternità e disoccupazione”. Solo alla fine compare “maternità a rischio”, quasi fosse l’ultimo dei pensieri quando si scopre di diventare madri: un segnale poco rassicurante nel 2017.

Riccarda Zezza
Riccarda Zezza è co-autrice del nuovo metodo di apprendimento MAAM – La Maternità è un Master. È Amministratrice Unica della startup che distribuisce la piattaforma digitale di MAAM.

Da quando, negli Anni 60, Gary Becker e Jacob Mincer hanno presentato la loro teoria sull’offerta di lavoro individuale come una scelta razionale tra tempo dedicato all’attività di mercato e tempo dedicato al lavoro domestico, l’economia ha cominciato a considerare la famiglia come un’unità produttiva e non solo come consumatrice. Ciononostante, le capacità acquisite nel lavoro domestico, la cui produzione include tutti quei beni e servizi prodotti in ambito familiare, come la preparazione dei pasti o la cura dei bambini e degli anziani, non sono mai state considerate al pari delle abilità lavorative; di conseguenza l’esperienza realizzata in ambito domestico non è mai stata valutata in termini del suo valore di mercato.

Anzi, la donna che si è allontanata per un determinato periodo di tempo dal lavoro per far fronte ai propri impegni di madre si è spesso trovata, al momento del rientro al lavoro, a dover affrontare la svalutazione delle proprie capacità e, quindi, anche delle proprie mansioni. E allora: a preoccupare le future mamme continua a essere soprattutto il lavoro, in particolare retribuzione e diritti, perché ancora si pensa che essere una mamma che lavora rimanga un problema nella nostra società. Non è di conforto leggere i dati del recente Gender Gap Index del World Economic Forum che rivela come, nell’ambito della partecipazione politica, il gap si sia ridotto solo del 23%, mentre in quello economico del 59%.

Elisa Vimercati
Elisa Vimercati è Responsabile del team Ricerca e Sviluppo di MAAM. È laureata in Filologia Moderna all’Università Cattolica di Milano.

Eppure, la nuova Agenda 2030 ribadisce tra gli obiettivi da perseguire la necessità di “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze” (Goal 5). Il WeWorld Index 2017 (si tratta di uno strumento per misurare l’inclusione di bambini, bambine, adolescenti e donne nel mondo) dimostra che una effettiva parità di opportunità tra il genere femminile e quello maschile influenzerebbe positivamente tutta la società: raggiungere e garantire la parità di genere non è solo la cosa giusta da fare, ma è anche fondamentale per uno sviluppo sostenibile.

D’altronde, ancora oggi, una donna su cinque non torna al lavoro dopo la maternità: l’Italia è 117esima su 124 nella partecipazione socioeconomica delle donne e vanta un tasso di fecondità tra i più bassi in Europa (solo l’1,34). Inoltre, come ha ricordato anche un recente articolo de Linkiesta: l’Italia è il terzultimo Paese europeo per numero di donne occupate, davanti alle sole Grecia e Macedonia; lavora appena il 57% delle donne tra i 25 e i 54 anni; in Svezia le donne che lavorano sono l’83% e la media-figli sale a 1,9.

 

Madri con salari del 15% inferiori alla media

Perché questi dati? Perché da noi le donne con figli non le assume nessuno. E chi le assume offre loro salari del 15% più bassi rispetto alla media. E se anche il salario fosse uguale, non hanno servizi e sostegni adeguati a conciliare il loro tempo da dedicare alla famiglia con quello da dedicare al lavoro. Ricordiamo che in Italia in politiche e servizi alla famiglia si spende solo il 2,3% della spesa nazionale, contro l’8,6% della Danimarca.

Tito BoeriNel XVI Rapporto Annuale dell’Inps, il Presidente Tito Boeri nel suo discorso introduttivo ha sottolineato: “C’è una forte relazione positiva fra occupazione femminile e natalità. Possiamo aspirare a diventare uno dei Paesi con alta partecipazione femminile e alta natalità, anziché essere relegati all’estremo opposto della bassa partecipazione e bassa natalità. Questo ci permetterebbe di rendere più sostenibile il nostro sistema di protezione sociale unendo ai vantaggi di avere un più alto numero di contribuenti, quello di impedire un forte declino dei tassi di fecondità che può minare alla base i sistemi pensionistici a ripartizione. Anche in questo caso abbiamo voluto simulare quali siano gli effetti sui conti della spesa sociale di mancati interventi a sostegno della crescita dei tassi di occupazione fra le donne.

In particolare, abbiamo valutato cosa accadrebbe a gettito contributivo e spesa sociale se il tasso di occupazione fra le donne rimanesse ai livelli attuali, vale a dire attorno al 48,5%. E questo senza contare il secondo dividendo, vale a dire quello dovuto all’incremento delle nascite tipicamente associato a un incremento dell’occupazione femminile. I risultati di questo semplice esercizio ci dicono che il gettito contributivo calerebbe da qui al 2040 cumulativamente di 67 miliardi, mediamente 3 miliardi all’anno in meno di entrate contributive rispetto agli scenari macroeconomici di riferimento.

Ipotizzando che queste donne che non lavorano non diventino beneficiarie di assistenza sociale –un’ipotesi molto restrittiva– si potrebbe avere qualche risparmio nel corso del tempo nell’erogazione di prestazioni contributive. Questi risparmi possono essere stimati in circa 25 miliardi. Ne discende che, nelle ipotesi più ottimistiche, il peggioramento cumulativo dei conti dell’Inps sarebbe comunque attorno ai 41 miliardi, circa due punti e mezzo di Pil.

Il declino delle nascite in Italia si spiega con gli alti costi della genitorialità. Documentiamo come il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisca un calo molto accentuato (-35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio), soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non-occupazione. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite (-20% nel Nord del Paese). I costi della genitorialità potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l’infanzia, ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità.

famigliaNel Rapporto offriamo una prima valutazione delle politiche avviate nel 2012 per ridurre parzialmente i costi della genitorialità. Il Bonus infanzia incoraggiava le madri a tornare prima al lavoro aiutando le famiglie con madri lavoratrici a pagare i servizi per l’infanzia. Questo sembra avere ridotto in modo significativo la penalità reddituale associata al fatto di avere un figlio, ma solo nel breve periodo. Il congedo di paternità obbligatorio non è stato in gran parte applicato. Due terzi dei neo padri non hanno preso neanche il giorno obbligatorio nel 2015, l’anno in cui questa misura è stata maggiormente adottata.

Se l’obiettivo di questa legge era quello di stimolare una maggiore condivisione degli oneri per la cura dei figli e di cambiare le percezioni i datori di lavoro restii ad assumere le donne in età fertile, il risultato è stato molto deludente. Impensabile cambiare attitudini se non si introducono sanzioni per le imprese che violano la legge e se non si va al di là di uno o due giorni di congedo parentale obbligatorio. Il cambiamento culturale e nelle norme sociali che il congedo di paternità vuole favorire non può essere incoraggiato con un congedo simbolico”.

I vantaggi (per tutti) negli investimenti in welfare

Un utile dialogo tra pubblico e privato è sempre auspicabile ed effettivamente le aziende hanno iniziato a capire che investire in welfare può essere vantaggioso per entrambi, dipendenti e proprietà. La recente ricerca su questo tema svolta dall’Università Cattolica insieme con Aidp e guidata Luca Pesenti, Rcercatore di Sociologia Generale nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, mette in luce come in media ogni azienda abbia attivato circa cinque benefit, relativi in media a due aree di bisogni di welfare tra servizi per la conciliazione vita-lavoro, servizi per le non autosufficienze, sanità, orari di lavoro e altri benefit (inclusi quelli relativi ai pasti, ai trasporti, ai consumi e al tempo libero). Si attesta attorno al 40% per tutte le categorie la penetrazione dei benefit e servizi per la famiglia e la conciliazione vita-lavoro.

Lo Smart working tuttavia è ancora all’ultimo posto della classifica (Figura 1).

Ricerca Cattolica Aidp
Figura 1. Distribuzione dei benefit di welfare più diffusi. Fonte: Indagine svolta dall’Università Cattolica insieme con Aidp

E infatti per oltre un terzo del campione delle aziende intervistate andrebbe maggiormente sviluppato. Va detto che tra i vari stereotipi di genere che connotano ancora oggi la società e il mondo del lavoro, permane quello della maternità associata a un problema e vista come una ‘grana’ da risolvere. Tante aziende stanno iniziando un processo di revisione della maternità –oggi allargato alla genitorialità, perché i papà rivestono un ruolo sempre più da protagonista anche se il cammino è appena agli inizi e molto deve essere fatto come ricorda Boeri– proprio alla luce del fatto che il paradigma può essere cambiato.

Un semplice cambio di prospettiva –basta cambiare una parola e il paradigma si ribalta– può avere un impatto devastante, in termini positivi, sulla crescita sostenibile della società: la maternità è sviluppo, è cambiamento, è trasformazione. Della persona e del suo mondo. Compreso quello professionale. Dalle mamme che hanno frequentato la piattaforma Maternity as a Master, il primo programma digitale al mondo che le aziende possono acquistare per trasformare l’esperienza della genitorialità dei propri collaboratori in un’opportunità per scoprire e allenare competenze soft relazionali, organizzative e dell’innovazione fondamentali anche sul lavoro, abbiamo appreso (Figura 2):

• “La maternità mi ha insegnato a trasferire conoscenze e competenze, affidare compiti e gestire situazioni”;

• “Essere madre è una palestra che ti allena ogni giorno e tu scopri di poter dare sempre di più”;

• “Una mamma in squadra sa sempre trovare una soluzione ai problemi”;

• “La maternità mi ha resa ‘Amministratrice Delegata’ della mia vita. Che cosa si può desiderare di più?”.

piattaforma Maam
Figura 2. I risultati ottenuti dalle oltre 2mila partecipanti alla piattaforma MAAM

I genitori sviluppano le competenze soft

Quella che racconta MAAM è una nuova storia dove si riconosce, nel luogo di lavoro, che esiste una vita al di là del lavoro. Una storia in cui sono le stesse aziende a dire ‘tu sei uno, le tue risorse sono uno, ciò che fai qui e ciò che fai anche fuori di qui mi interessa, perché gestire le cose come si è fatto finora non è più sostenibile”. Le cosiddette soft skill –quelle che riguardano il carattere, la capacità di lavorare con altri– sono sempre più apprezzate dalle aziende, soprattutto quelle tech che, guarda caso, assumono più di altri settori.

genitoriE si lavora prevalentemente in team, dove occorre essere aperti all’ascolto, al dialogo e all’empatia: proprio quelle competenze che aumentano una volta diventati genitori. Sempre da una ricerca condotta da MAAM, risulta infatti che le competenze più allenate sono organizzazione e pianificazione, gestione dei rapporti interpersonali e problem solving; seguono ascolto, gestione di tempo e priorità, flessibilità. Insomma, tutte qualità ricercate dai Responsabili delle Risorse Umane anche alla luce di una nuova tendenza che si sta facendo largo, quella di recuperare i concetti di responsabilità morale e civile e di etica.

Si capisce allora che avere mamme e papà all’interno dei team di lavoro possa essere vantaggioso in termini umanistici, quasi fossimo nell’era di un post-rinascimento che non rinnega l’evoluzione tecnologia, ma non dimentica che siamo umani. E che a renderci tali sono l’empatia, la capacità di ascolto e relazione, anche in tempi hi-tech.

Cercare di lavorare su queste competenze che si acquisiscono vivendo l’esperienza della genitorialità è la vera sfida, perché trasforma un problema in opportunità. Cambia il paradigma, appunto. Una riflessione in più la meritano i papà, a lungo considerati ‘mammi’ o ‘baby-sitter’ (entrambe definizione fuorvianti oltre che brutte). L’esperienza della paternità, nonostante sia spesso del tutto invisibile alle aziende, è altrettanto formativa quanto quella della maternità. Le ricerche sullo sviluppo del capitale umano mostrano che i legami più importanti, le influenze più significative e durature nel tempo si creano e si rafforzano nei primi anni.

we world index
Il mondo secondo il WeWorld Index 2017: gli Stati sono colorati rispetto al tasso di inclusione di bambini, bambine, adolescenti e donne nel mondo. Nella classifica l’Italia compare tra i Paesi a ‘Sufficiente inclusione’. Fonte: WeWorld Index 2017

I rapporti con le mamme si stabiliscono anche prima di nascere; ma i rapporti con i padri possono crearsi a volte più tardi nel ciclo di vita. Eppure ricerche recenti mostrano che la presenza attiva dei padri fa bene ai bambini e aiuta il loro sviluppo cognitivo. Per le bambine, in più, la presenza di un padre attivo, che divide equamente il lavoro familiare con la mamma può diventare un importante modello positivo e incoraggiare le loro aspirazioni. Altre ricerche mostrano che la collaborazione dei padri nelle attività familiari e di cura dei figli può anche aiutare a conciliare lavoro e famiglia sostenendo i tassi di fertilità e l’offerta di lavoro delle mamme, punto nevralgico toccato da Boeri.

maternitàSimona Argentieri, ne Il padre materno (Einaudi) ha scritto: “I padri hanno conquistato aspetti autentici del rapporto con i bambini, ma a spese di altri livelli: quelli delle funzioni che un tempo, a torto, si consideravano specificamente maschili. In realtà si tratta delle funzioni adulte, al servizio del conflitto sano e vitale, delle passioni, della strutturazione di una personalità adulta”.

Già negli Anni 60 Alexander Mitscherlich sanciva il declino dell’autorità paterna e addirittura parlava di una società senza padre. Ma adesso –ha fatto notare Anna Laura Zannatta in Nuove madri e nuovi padri (Il Mulino)– “il modello tradizionale di paternità è in crisi evidente e non ne è emerso ancora uno nuovo che lo possa sostituire”. La sfida si gioca sul terreno della genitorialità e l’ingresso dei papà nella piattaforma MAAM lo dimostra. Vogliono partecipare e riconoscono un aumento delle competenze soft. Essere genitori rende più forti e questo, prima o poi, tutte le aziende dovranno capirlo e riconoscerlo. Conti alla mano, è un vantaggio anche per loro.

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