La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Mirare alla felicità

Mirare alla felicità dei collaboratori per civilizzare l’impresa

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I risultati delle più accreditate ricerche empiriche, di tipo sia econometrico sia sperimentale, ci informano in modo incontrovertibile di alcuni aspetti legati alla felicità.

Il denaro (e più in generale la ricchezza) contribuisce alla felicità assai meno e molto più indirettamente di quanto si sia creduto fino a un quarto di secolo fa. Addirittura, ha trovato ampia conferma il cosiddetto paradosso di Easterlin, scoperto per primo dall’economista americano nel 1974, secondo cui, oltre una certa soglia di reddito pro capite, ulteriori aumenti dello stesso anziché accrescere o stabilizzare il livello della felicità individuale provocano diminuzioni della stessa. Il modo in cui è organizzata l’attività produttiva esercita forti ripercussioni sulla felicità.

Non è dunque vero, come continua a insegnare la teoria economica mainstream, che il lavoratore è unicamente interessato alla remunerazione che riesce a conseguire. Ciò significa che la felicità c’entra non solo con la sfera del consumo, ma anche con quella della produzione. L’autoasfissia organizzativa di certi luoghi di lavoro è all’origine di dissonanze cognitive sviluppate dai lavoratori, le quali finiscono poi per incidere negativamente sui livelli di produttività.

Disoccupazione di lungo termine e disuguaglianze sociali incidono negativamente sulla felicità. Invero, l’espulsione dall’attività lavorativa produce una perdita dell’autostima e un razionamento della libertà.

D’altro canto, disuguaglianze crescenti nella distribuzione del reddito (e della ricchezza) confliggono con il sense of fairness’ (senso di equità) che la letteratura recente di economia sperimentale ha dimostrato essere una componente essenziale della felicità (già Abba Lerner nel 1944 aveva chiarito come la giustizia sociale fosse una componente essenziale della felicità).

La disponibilità di beni relazionali e di beni di uso comune (commons) è tra i fattori che più influenzano il livello di felicità di un Paese o di una persona. Il lavoro di Martha Nussbaum, da un lato, e quello degli economisti che si riconoscono nel paradigma dell’economia civile, dall’altro, hanno prodotto, su tale punto, una schiera di evidenze.

Inoltre, la partecipazione democratica ai processi decisionali accresce, coeteris paribus, il livello di felicità individuale, perché un elevato grado di coinvolgimento dei lavoratori nella tutela e nella gestione della propria azienda aumenta il senso di appartenenza alla comunità.

Gestire il coordinamento del lavoro

Cosa ha determinato dunque, in tempi recenti, il vivace ritorno d’interesse, entro le scienze dell’organizzazione, per le tematiche della felicità nell’impresa? Per una risposta, non meramente tautologica, conviene prendere le mosse dal problema del coordinamento in organizzazioni complesse. Ogniqualvolta persone diverse svolgono compiti tra loro interdipendenti, a seguito della divisione del lavoro, nasce un problema di coordinamento.

L’interdipendenza può avere duplice natura: tecnologica o strategica. Nel primo caso, sono le caratteristiche stesse del processo produttivo a fissare le modalità del coordinamento. L’esempio tipico è la catena di montaggio e, più in generale, il sistema fordista. Nella fabbrica o nell’ufficio fordista, il coordinamento si realizza per mezzo della gerarchia di un adeguato sistema di incentivi-punizioni.

La realtà di oggi, invece, è dominata dall’altro tipo di interdipendenza. L’interdipendenza strategica significa che il comportamento di ciascun componente dell’organizzazione dipende – in buona parte – dalle sue aspettative circa le intenzioni e il comportamento degli altri. In tali casi, il coordinamento è un meeting of minds, come spiega Thomas C. Schelling.

Quali le conseguenze pratiche che ne derivano? Che per realizzare un modello efficiente di organizzazione occorre tenere conto dei sistemi motivazionali di coloro che operano in azienda.

Non basta cioè prendere in considerazione le sole competenze tecniche e il grado di formazione acquisito dalle persone, come purtroppo si continua a fare.

Infatti, tre sono i tipi principali di orientamento motivazionale delle persone: asociale (quello di chi bada solo a se stesso: l’asociale né fa del male né fa del bene agli altri, è semplicemente un autointeressato); prosociale (quello di chi è felice che l’organizzazione in cui lavora fiorisca, perché gode del bene altrui; è tale l’altruista e chi sa cosa è il bene comune); antisociale (quello di chi, pur di arrecare danno ad altri, è disposto a sopportare un qualche costo personale; è tale l’invidioso malevolo o il superfrustrato).

Ebbene, il compito più arduo di chi ha responsabilità organizzative è quello di non sbagliare gli ‘accoppiamenti’ in azienda: se nel medesimo ufficio o reparto vengono messi a lavorare un antisociale e un prosociale, il primo dominerà il secondo e la performance aziendale ne risentirà, pesantemente.

Personale con o senza vocazione

Che fare, allora? Un modo, immediatamente intuitivo, per rispondere è quello di considerare un caso ideal-tipico, quello del Direttore Generale di un ospedale che deve assumere per la sua struttura personale medico (o infermieristico). Cosa significa avere la vocazione a fare il medico (oppure l’infermiere)?

Due cose, basicamente: che la persona è disposta a fare di più di quanto le è richiesto dai doveri d’ufficio; che la persona svolge i compiti che le vengono assegnati perché ne trae una soddisfazione intrinseca, cioè diretta (la soddisfazione indiretta invece è quella associata alla remunerazione ottenuta dallo svolgimento del compito).

Vi siano allora due tipi di medici: quelli con vocazione e quelli senza. I primi assicurano una qualità tacita alta (nel senso di Michael Polanyi): i pazienti saranno soddisfatti del loro comportamento, ne parleranno bene e la reputazione dell’ospedale aumenterà in conseguenza. A sua volta, l’aumento del capitale reputazionale porta con sé un aumento di ricavi e di entrate provenienti da donazioni. I medici senza vocazione, invece, assicurano una qualità tacita bassa, con le conseguenze che è agevole immaginare.

Si indichi con w la remunerazione pecuniaria, cioè lo stipendio del medico; con r>o, il cosiddetto salario di riserva, cioè quanto un medico potrebbe ottenere andando a lavorare altrove; con v la remunerazione non pecuniaria che esprime il beneficio che chi ha vocazione ottiene svolgendo il proprio lavoro.

Il comportamento del medico senza vocazione è dettato dalla seguente ineguaglianza: w>r . Quanto a dire che il medico senza vocazione accetterà l’offerta di lavoro solamente se w>r. Il comportamento del medico con vocazione, invece, è determinato dalla seguente ineguaglianza: w+v>r. Cioè, il medico con vocazione confronta il salario di riserva con il vantaggio complessivo, pari alla somma dello stipendio e della remunerazione intrinseca.

A causa dell’esistenza di asimmetrie informative, il Direttore Generale non può scoprire se un certo medico ha o meno la vocazione né può pensare di chiederglielo, dal momento che tutti risponderebbero affermativamente. Eppure, il Direttore Generale sa che a lui converrebbe assumere medici con vocazione e ciò allo scopo di accrescere la reputazione della sua struttura.

Come fare, allora? Due i comportamenti che nella pratica è possibile osservare: il Direttore Generale poco saggio aumenta w nella speranza di attrarre i migliori, ma in tal modo, attrae i medici senza vocazione e scoraggia quelli con vocazione. La conseguenza ultima sarà una diminuzione del capitale reputazionale, fino al punto in cui sarà costretto a diminuire w (cioè aumentano i costi senza che i ricavi aumentino più che in proporzione).

L’altra opzione è quella del Direttore Generale saggio e lungimirante, il quale offre un aumento di remunerazione intrinseca (v), mantenendo invariata la retribuzione (w). In tal modo, i medici senza vocazione non saranno più di tanto interessati ad accettare l’offerta, mentre lo saranno i medici con vocazione. La catena delle conseguenze è quella di cui sopra e l’aumento dei ricavi potrà consentire al Direttore Generale di accrescere, ma solo alla fine, anche w.

Aumentare la remunerazione intrinseca

Perché nella realtà prevalgono i Direttori Generali ‘miopi’ e poco saggi? Perché è molto più facile aumentare w che v. Non ci vuole, infatti, grande ingegno a concedere incentivi monetari. Per aumentare v, invece, bisogna essere bravi, perché occorre agire sia sulla cultura d’impresa (corporate culture) sia sull’organizzazione del lavoro dentro la struttura.

Se per esempio al medico che ha vocazione il Direttore Generale impedisce con regolamenti astrusi e di tipo burocratico di instaurare con i pazienti un rapporto autenticamente umano, impedendogli di estrarre dal proprio lavoro la soddisfazione intrinseca, è evidente che questi reclamerà aumenti salariali e non si impegnerà più di tanto (“Visto che non mi consenti di trarre soddisfazione dal mio lavoro, dammi almeno più soldi…”).

Non esiste una regola fissa che indichi come fare per aumentare la remunerazione intrinseca. Ciascun manager deve inventarsi il proprio modo, tenendo conto della specificità della propria realtà. Ed è proprio a questo livello che si misura la cifra del grande manager. Vi sono però alcuni princìpi guida a tale riguardo.

Il primo è l’equità: lavorare in un’organizzazione dove l’equità è messa in pratica fa aumentare v. Il principio di equità ci dice che le persone confrontano il rapporto tra il loro sforzo e la loro remunerazione a quello degli altri che compongono il gruppo di riferimento. L’evidenza empirica suggerisce che le persone che percepiscono di essere trattate in modo non equo non realizzano un elevato v. E quindi non reciprocheranno nei confronti dell’azienda.

Il secondo principio è il rispetto: che non è solamente assenza di atti che provocano umiliazione (si pensi al mobbing), ma soprattutto valorizzazione del potenziale umano. L’organizzazione che rispetta i propri collaboratori è quella che li fa crescere sotto il profilo umano. È in ciò l’importanza della formazione continua.

Infine, vi è la responsabilità sociale. L’organizzazione che si adopera per conseguire obiettivi di rilevanza sociale accresce sensibilmente la componente v dei suoi collaboratori e quindi attira persone con vocazione. Per esempio, si dimostra che le organizzazioni che attuano schemi di gift matching e di employee volunteering vedono aumentare la propria produttività.

Qualità per disegnare un futuro sostenibile

Per concludere aggiungo che la qualità che un lavoratore può esprimere è di due tipi: codificata (quella che può essere accertata, in modo pressoché oggettivo, mediante protocolli o codici, così che una terza parte può sempre sanzionare eventuali comportamenti devianti o opportunistici); tacita (quella che non è verificabile).

Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata bastano gli incentivi materiali (per esempio pagare di più), per estrarre dai collaboratori una elevata qualità tacita è necessario far leva sulla motivazione intrinseca degli agenti e quindi occorre intervenire su v. Ebbene, nelle imprese di oggi, la qualità tacita è assai più importante e decisiva della qualità codificata. È questo il senso profondo della fine del taylorismo come modo di organizzazione del lavoro e la sua progressiva sostituzione con modelli di tipo olocratico.

Un recente rapporto realizzato da Accenture per conto delle Nazioni unite, ci consente di confermare quanto sopra. Il rapporto in questione fa parte della serie United Nations Global Compact e si intitola CEO studies on sustainability e presenta i risultati di un’indagine empirica condotta su 1.000 dirigenti che operano in 27 settori industriali, in 103 diversi Paesi.

Uno dei risultati più sorprendenti di questa indagine è che i manager sono convinti che l’economia globale si stia muovendo sul sentiero sbagliato e che le imprese non stiano facendo la loro parte nel disegno del futuro sostenibile.

Un’altra ricerca, condotta nel 2016 dal World Economic Forum su 560 manager europei, ha indagato quali siano le qualità e le abilità richieste a un manager dal proprio ruolo per poter affrontare il futuro.

Questi i risultati più significativi: al primo posto c’è la soluzione di problemi complessi, al secondo posto il pensiero critico, al terzo posto la creatività, al quarto la gestione delle persone.

 

Per continuare a leggere il contributo di Stefano Zamagni e approfondire i molteplici aspetti legati al benessere organizzativo, leggi il libro La dimensione etica del benessere organizzativo.
Per informazioni sull’acquisto di copie scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

 

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