La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Occasione perduta o vera gloria: cosa sarà lo Smart working?

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Di questi tempi la società intera e l’economia stanno vivendo un profondo cambiamento, in virtù anche della fase di transizione tra l’industria manifatturiera di stampo ancora novecentesco, basata in buona parte ancora sui principi fordisti (e come tale tutto sommato più agevolmente gestibile e organizzabile) e i nuovi orizzonti tecnici organizzativi e produttivi che deriveranno automaticamente dalla continua implementazione tecnologica, dal fenomeno della cosiddetta digitalizzazione, nonché dal costante ampliarsi delle spinte verso l’incremento della flessibilità lavorativa.

Sono tutti fattori che stanno incidendo profondamente sul contesto economico-sociale costringendo anche il diritto, come parte fondamentale della società civile, ad adeguare le proprie regole a tale cambiamento o addirittura a domandarsi se molte delle regole precedentemente valide non vadano addirittura eliminate per raggiungere l’obiettivo da molti condiviso di una radicale semplificazione del sistema giuridico e amministrativo.

Di Seri Smart WorkingIn un certo senso primaria e inoppugnabile testimonianza di questo cambiamento è rappresentata, nella realtà dei fatti, dalla connotazione costantemente evolutiva che sta caratterizzando in particolare il diritto del lavoro (che peraltro costringe a porsi prima di tutto l’interrogativo radicale su una sua permanenza immutata in termini di nucleo essenziale valido erga omnes o nella sua scomposizione in un “diritto dei lavori” estremamente frastagliato e dotato solo di pochissimi principi che accomunino le varie categorie di lavoratori).

Di conseguenza, uno dei temi principali di maggior coinvolgimento globale sulla ma-teria del futuro del lavoro è pro-prio rappresentato dalla necessità di accompagnare questo processo evolutivo anche con nuove regole il più possibile utili per mantenere un corretto equilibrio di diritti e poteri tra datori di lavoro e lavoratori e nel contempo supportare la competitività e redditività delle imprese come luoghi in cui ancora adesso si concentra comunque una parte estremamente positiva dell’occupazione italiana.

Nuovo modo di lavorare

In virtù di quanto sopra esposto, il diritto del lavoro appare oggi come un cantiere in perenne attività (basti pensare alle varie normative attuative della Legge del 10 dicembre 2014 n. 183, il famoso Jobs Act) che tenta di edificare nuove costruzioni tecniche le quali possano armonizzarsi con il contesto preesistente, apportando nel contempo elementi di progresso tesi ad arricchire l’architettura d’insieme prendendo a riferimento le esigenze di sviluppo dell’impresa insite nel progetto Industria 4.0 e la connessa valutazione d’impatto per la vita quotidiana dei lavoratori di ogni tipo (autonomi, parasubordinati, subordinati).

Uno dei ‘manufatti’ legislativi di maggior rilievo in questa particolare situazione ‘fluida’ è senz’altro rappresentato dalla recente Legge del 22 maggio 2017 n. 81, con cui sono stati compiuti alcuni passi fondamentali in una logica di percorso evolutivo ‘a 360 gradi’ che nel contempo dovrebbe colmare vuoti normativi di base adottando una disciplina legale organica pur in presenza di precedenti esperienze, basate però soltanto sulla contrattazione collettiva.

In tal ottica va a posizionarsi, infatti, la legge in oggetto in qualità di prima regolamentazione complessiva e articolata dell’istituto del cosiddetto ‘lavoro agile’ (meglio noto come Smart working) cui il presente contributo dedica una succinta e rapida osservazione in quanto argomento di vasto interesse teorico, potendo riguardare i più disparati settori produttivi e mirando a rispondere efficacemente a plurime esigenze che si stanno già da qualche tempo manifestando nella gestione del rapporto di lavoro subordinato. Gestione che sembra soffrire di una certa ‘staticità’ perché tuttora troppo debitrice di alcuni principi ‘classici’ ormai insufficienti per affrontare determinate problematiche economico-sociali.

Tanto per cominciare, risulta significativa la sottolineatura espressa posta nell’articolo 18 della Legge circa la configurabilità dello Smart working solo quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato (e non quale nuova tipologia contrattuale tout court) introducibile con un precipuo accordo tra le parti, il cui contenuto può concernere le modalità organizzative della prestazione del lavoratore senza dovere di sottoposizione a precisi vincoli di orario e di luogo consentendo (anzi, in un certo qual modo presupponendo, vista la filosofia di fondo della legge e i pre-supposti logici richiamati in precedenza) un’attività esercitabile anche mediante un acconcio e costante utilizzo di tecnologia mobile fornita direttamente dal datore di lavoro.

Trattasi comunque di attività da svolgere nel rispetto almeno dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale previsti dalla Legge 66/2003 o dalla contrattazione collettiva e che sarà possibile innestare sia su un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sia su uno a tempo determinato in qualunque momento durante il suo svolgimento. A ciò si aggiunge la possibilità, altrettanto lecita, di stipulare il patto individuale tra datore di lavoro e lavoratore istitutivo ex lege dello Smart working, addirittura contestualmente all’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato.

Patto che in ogni caso va formalizzato per iscritto ad probationem e ai fini di una non meglio precisata “regolarità amministrativa”. È importante segnalare immediatamente che il patto in questione è finalizzato a disciplinare solo l’ese-cuzione della parte di prestazione volta all’esterno dei locali dell’azienda, mentre la parte residua va ope legis praticata all’interno dei locali aziendali. Questa composizione mista esterno-interno della presta-zione è proprio ciò che caratteriz-za lo Smart working come istituto giuridico a sé stante, differenziabile così dal telelavoro che invece postula una modalità di esecuzione più lineare, in quanto svolto totalmente all’esterno dell’impresa.

Rivedere l’organizzazione

Risulta quindi essenziale tarare l’utilizzo dello Smart working in modo da assicurare una compenetrazione armoniosa delle due parti in quanto globalmente mirante, seppur in modo diverso, a incrementare, come recita l’articolo 18 comma 1, “la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

Proprio la necessità di per-seguire la miglior compenetrazione di cui sopra ha indotto il Legislatore ad affidare unicamente ai sottoscrittori del contratto individuale di lavoro (senza quindi alcun intervento obbligatorio preventivo, diretto o indiretto, della contrattazione collettiva) la scelta di apposite forme di organizzazione di questa fetta di prestazione esterna, che può avvenire anche per singole “fasi, cicli e obiettivi” e che comunque, in base all’art. 19, è sempre reversibile, con ripristino quindi dell’integrabilità della prestazione nei locali aziendali o, per converso, trasformabilità totalmente all’esterno, in forma quindi di telelavoro (che diventerebbe a quel punto regolato solo dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004 e dalla contrattazione colletti-va di vario livello).

Il suddetto articolo 19 pone una serie di ulteriori regole molto rilevanti e talvolta, per un certo verso, sin troppo vincolanti per i singoli datori di lavoro e smart worker: per esempio, i termini minimi per il recesso anticipato dal patto nel caso quest’ultimo fosse stato stipulato a tempo indeterminato o la necessità della sussistenza di un giustificato motivo – valida anche per il patto sottoscritto “a termine” – come condizione per il recesso immediato.

Sono regole da leggersi in connessione concettuale con quelle poste dagli articoli 20 e 21, costituenti il cuore pulsante della normativa per quanto concerne alcuni essenziali effetti concreti sullo status di un lavoratore che accetti questa particolare modalità di esecuzione della prestazione. Essi riguardano infatti il trattamento economico-normativo (sostanzialmente assimilato a quello del lavoratore subordinato ‘norma-le’) e il potere di controllo e disciplinare del datore di lavoro (per la parte solo ‘esterna’, ovviamente) ove un punto delicatissimo è rinvenibile, per esempio, nel comma 2 del succitato articolo 21, poiché attribuisce unicamente all’accordo tra le parti l’individuazione delle condotte “connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali che danno luogo all’applicazione di sensazioni disciplinari”.

Questo è un pericoloso fattore potenziale di conflittualità per una serie di incertezze interpretative e conseguentemente gestionali che potrebbero affliggere il datore di lavoro (necessità o meno di un’applicazione Integrale, come di consueto, dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, effetti pratici di eventuali carenze o vizi dell’accordo di individuazione in oggetto, esistenza o meno di peculiari limiti all’identificabilità ‘congiunta’ di comportamenti scorretti aggiuntivi a quelli esistenti per i normali lavoratori interni, ecc.) e probabilmente la giurisprudenza dovrà in futuro occuparsene, stante la stringatezza della legge.

Alcuni nodi irrisolti

Di Seri Smart workingVa, infine, fatto cenno, quale altro fattore di complicazione gestionale, all’ulteriore (e forse più preoccupante) delicatezza derivante dalla difficile comprensibilità di molti dei contenuti degli articoli 22 e 23, relativi rispettabilmente alla sicurezza sul lavoro e alla assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie, problema di non poco conto, rappresentando i suddetti articoli di una sorta di ibridazione alquanto discutibile tra dettami generali già desumibili dalle vigenti normative in proposito a integrazioni-innovazioni astrattamente pensate in ragione della particolarità della fattispecie in quanto caratterizzata, appunto, da un mix tra prestazione interna ed esterna all’azienda che ne costituisce l’innovazione di spicco.

Tali elementi hanno obiettivamente reso più difficile al Legislatore la definizione precisa di un ragionevole equilibrio tra permanenza della necessità di fornire serie garanzie di sicurezza allo smart worker e impossibilità oggettiva di mantenere immutata la posizione di controllo (e quindi di responsabilità conseguente) in capo al datore di lavoro, per le maggiori difficoltà intrinseche nel verificare ciò che non è più visibile ictu oculi.

Analoghe considerazioni possono valere per gli aspetti infortunistici, ove suscita perplessità, per esempio, il ricorso a una specie di parallelismo tecnico con l’attuale disciplina generale dell’infortunio in itinere, che sembra costituire un preciso punto di riferimento pur se non esattamente comparabile con la figura dello smart worker, dato che sotto un identico profilo può essere addirittura più difficile interpretare la stessa fondamentale nozione di luogo (o luoghi?) di lavoro.

Insomma, in particolare sotto questi aspetti, il tema rimane molto ‘caldo’ e meriterebbe quantomeno l’emanazione di appositi chiarimenti amministrativi da parte del Ministero e degli Istituti competenti (fermo restando che, in termini molto più generali e sull’applicazione di importanti punti della nuova legge, un ruolo di supporto potrebbe essere esercitato anche dalle parti sociali con un’azione di accompagnamento e di indirizzo preventivo nella gestione pratica dell’istituto).

In una visione prospettica che volesse comunque pendere maggiormente verso l’ottimismo (per lo meno della volontà) non pare in conclusione assurdo pensare che anche per datore di lavoro e smart worker possa valere la considerazione espressa da Vasco Rossi in una recente canzone di successo, secondo la quale “quello che potremmo fare io e te non si può neanche immaginare…”.

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