
Partecipazione e innovazione per aumentare la produttività
coinvolgimento dei lavoratori, miglioramento performance, pil, produttività
La bassa crescita della produttività del sistema economico italiano è da anni al centro della riflessione dei ricercatori e degli attori politici e sociali. Infatti, il ristagno della produttività complessiva del nostro sistema produttivo risale alla seconda metà degli Anni 90, come molti studi economici e statistici hanno indicato. Tuttavia la questione della produttività del sistema Italia è molto controversa: è stato osservato che il sistema di calcolo della produttività globale, basato sulle serie storiche del Pil nazionale, può essere falsato oppure condizionato da vari fattori, come per esempio l’economia sommersa o la parziale emersione di forme di lavoro nero a seguito dei condoni. Anche l’Istat ha recentemente ricalcolato il Pil degli ultimi anni e ha rivisto al rialzo le percentuali di crescita.
Se poi si considera la sola industria manifatturiera la questione della produttività del sistema industriale è altrettanto complicata. Secondo alcuni, la buona tenuta dell’export anche negli anni della grande crisi sembra contraddire la tesi di una caduta complessiva di produttività dell’industria. In ogni caso, la crisi successiva al 2008 ha portato alla chiusura di molte imprese industriali con la perdita stimata di circa il 25% del fatturato manifatturiero e di circa 400mila posti di lavoro, secondo i dati Istat del 2017. Inoltre, dal momento che molte difficoltà erano presenti anche prima della crisi, si è sviluppato un dibattito sul “declino industriale” del nostro Paese e ci sono stati diversi studi sulle leve e le politiche per ridare competitività all’industria italiana sin dai primi Anni 2000 (Onida, 2004).
Anche il dibattito tra gli economisti industriali, se le cause principali fossero interne alle imprese – come per esempio la caduta degli investimenti, il passaggio generazionale, la piccola dimensione, la scarsa qualità del management e della forza lavoro – oppure esterne alle imprese – la lentezza della giustizia civile, il costo dell’energia, la burocrazia, ecc. – è stato molto vivace e complesso. In ogni caso gli studi quantitativi segnalano che gli investimenti in innovazione tecnologica si sono ridotti e ristagnano da anni, stando ai dati del Rapporto Istat del 2015.
Le tre scuole di pensiero sulle cause della scarsa innovazione tecnologica in Italia
Le analisi sulle cause di questa riduzione tuttavia, sono molto controverse e ci sono diverse tesi, spesso intrecciate tra loro. Schematicamente si possono individuare tre linee di analisi o scuole di pensiero sulle cause della scarsa innovazione tecnologica. La prima si rifà alla classica analisi sulla anomalia del sistema industriale italiano che presenta una preponderanza di Piccole e medie imprese e sulla loro difficoltà strutturale a fare grandi investimenti (Daveri F., 2016).
La seconda scuola, più vicina agli studi di economia internazionale, collega le difficoltà a investire al fatto che nelle manifatture italiane sono dominanti i prodotti a basso contenuto tecnologico, che quindi sono più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti. Infine c’è una terza direzione di analisi, che invece si ricollega agli studi sulla centralità del capitale umano per l’innovazione e sulla arretratezza italiana da questo punto di vista (Visco I., 2015). Essa sostiene che è la scarsa preparazione dei manager e degli imprenditori e la bassa formazione della forza lavoro italiana che, insieme a forme organizzative troppo tradizionali, ostacolano gli investimenti in nuove tecnologie.
A questo filone è riconducibile anche la scuola della high performance organization che collega il miglioramento delle performance competitive delle imprese sul lungo periodo, alla elevata qualità delle risorse umane e alla loro gestione innovativa (De Waal, 2012).
Un’analisi ‘micro’ delle cause
Un punto problematico comune a questi studi di tipo ‘macro’ è che essi cercano di collegare le variabili statistiche (per esempio il valore aggiunto globale con il totale delle ore lavorate) ma non arrivano a spiegare come dentro i sistemi di produzione le diverse variabili si combinano per condurre ai risultati e come questi risultati si differenzino in relazione alle soluzioni tecnologiche e organizzative adottate dalle singole imprese. Per comprendere meglio la concatenazione tra le diverse variabili bisogna quindi ricorrere ad analisi “micro” sulle aziende reali che consentano di elaborare ipotesi più fondate.
L’obiettivo di questo articolo non è perciò quello di riprendere il dibattito sulle cause strutturali macro. Ci proponiamo invece di iniziare una analisi ‘micro’ di tipo qualitativo che, con l’osservazione della organizzazione interna delle imprese, consenta di trovare i nessi tra le variabili in gioco, tenuto conto della varietà dei casi aziendali osservati. Le variabili della nostra analisi sono le tecnologie, l’organizzazione del lavoro, i sistemi gestionali e soprattutto il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori.
Questo contributo si focalizza perciò sulle pratiche del coinvolgimento e dà per scontate le tendenze attuali dell’innovazione tecnologica e dell’innovazione organizzativa, approfondite in altri studi. In particolare per l’innovazione tecnologica assumiamo, rifacendoci alle ricerche portate avanti dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, del 2015, che la tendenza principale sia il passaggio dall’automazione tradizionale alla digitalizzazione della fabbrica (cosiddetto “cyber phisical system” o Industria 4.0).
Per l’innovazione organizzativa, che è un fenomeno più articolato, è in corso a nostro avviso un passaggio da forme di lean organization classica a forme di lean evoluta. Con questa espressione si intendono sistemi caratterizzati non solo dalla applicazione dei principi classici della lean, ma anche da interazione più complesse tra persone e macchine, da un maggior empowerment e coinvolgimento dei lavoratori, da un arretramento della gerarchia con maggiore uso di team formalizzati e da una architettura ispirata alla organizzazione che apprende. Il ‘World Class Manufacturing’ (WCM) del gruppo FCA è un esempio tipico di lean evoluta (Campagna et al., 2015). La nostra tesi è esprimibile in tre punti, di seguito esposti.
L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Maggio – Giugno – Luglio 2017 di Sviluppo&Organizzazione.
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