La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Partecipazione e innovazione condivisa Le imprese italiane oltre la crisi

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Luciano Pilotti, Professore Ordinario di Economia e management presso l’Università degli studi di Milano

L’Italia tornerà a crescere. Come? Sviluppando la propria produttività sistemico-ecologica estendendo la platea di imprese, settorifiliera e territori/città che sviluppano innovazione e qualità ‘condivise’, cooperando per competere su scala globale. E ancora, attraendo talenti, investimenti e investendo a sua volta in infrastrutture materiali e immateriali e in formazione media e medio-alta. Perché ciò accada sarà necessario accelerare i cambiamenti nella cultura d’impresa verso una superiore accoglienza della diversità, una maggiore apertura societaria e un minore grado di comando verticale favorendo la transizione dal controllo all’auto-organizzazione e ad aggregazioni per linee esterne di filiera o di networking. È soprattutto investendo sui giovani, veri portatori di idee, propensi al rischio, aperti al lavoro di squadra e compatibili con risorse di conoscenza, che si rende possibile (oltre che necessaria) una svolta. Gli strumenti per facilitare tali processi sono noti: vanno dall’investimento nelle università e nella ricerca alla facilitazione di start-up e spin-off accademici e non fino a un sistema bancario accogliente, dagli incentivi fiscali e materiali per richiamare ricercatori e manager dall’estero al miglioramento delle qualità dei contesti urbani e territoriali. Da qui il rilievo dato all’accoppiamento tra politiche di inclusione, allargamento della base sociale e politiche formative del capitale umano con l’obiettivo congiunto di valorizzare competenze e conoscenze di persone, gruppi e comunità radicate in territori aperti e competitivi da promuovere in senso glocale. Scopo di queste note è illustrare limiti e possibilità delle imprese italiane nell’inspessimento di una crescita endogena-locale verso la glocalità attesa da anni e nel miglioramento dei contesti spaziali-territoriali quale leva di attrattività di nuovi investimenti e di generazione di creatività diffusa, anche per effetto dell’integrazione tra aree metropolitane allargate e distretti estesi e interdipendenti.            

Ciò che si propone in questo articolo è una visione integrata delle politiche pubbliche e territoriali rivolte alla crescita come sviluppo di sistemi produttivi aperti e competitivi capaci di fronteggiare sia la globalizzazione mercatistica sia la digitalizzazione diffusa della produzione 4.0 (Bianchi e Labory, 2016), a partire dal radicamento in specifici territori di definite conoscenze- competenze utili alla personalizzazione di beni e servizi entro filiere e reti di appartenenza (Rullani, 2004; 2010). A tale scopo serve guardare, in particolare, alle trasformazioni del profilo delle imprese e alle opportunità di crescita partecipata, reticolare e condivisa nonché al loro contributo a strategie di sviluppo nel medio-lungo periodo, oltre i vincoli shumpeteriani e di uno “stato keynesiano” appesantito, esplorando assetti di una democrazia attiva, diretta e inclusiva. Mutamenti necessari, questi, orientati a ridurre i pesanti differenziali di produttività e competitività, oltre che di innovazione superando blocchi ‘sistemici’ da rendite di posizione e da lentezze delle riforme strutturali, per fuoriuscire dalla stagnazione della produttività che attanaglia il nostro Paese da oltre 25 anni e dare risposte alle diffuse politiche deflazionistiche europee.
Dalla crisi economica strutturale, che avanza da ben oltre i sette anni dei “cicli biblici”, e da una stagnazione che colloca la crescita futura dell’Italia sotto l’1% con effetti devastanti su occupazione, base produttiva e ruolo stesso dei nostri sistemi di Pmi si esce con una politica industriale che abbia la crescita (investimenti, consumi e qualità dei contesti di attrattività) negli obiettivi prioritari e con politiche di sviluppo urbano che facciano da volano e conduzione di politiche di innovazione ecologica, sociale e open (Chesborough, 2003) con alla base incentivi alla formazione di capitale umano adatto.
Quella che abbiamo vissuto è una crisi economica che – come noto – parte da una caduta pluriennale della domanda interna di consumi e investimenti alimentata dal circolo vizioso e deflazionistico tra rinvio degli acquisti e rinuncia agli investimenti uniti da un unico circolo tra sfiducia e aspettative negative (Cappellin, Baravelli, Bellandi, Camagni, Ciciotti, Marelli, 2015). Non basta quindi ‘tagliare – seppure selettivamente – la spesa’, ma introdurre stimoli alla crescita, liberando risorse per gli investimenti innovativi e soprattutto migliorando la qualità dei contesti territoriali (la business atmosphere di marshalliana memoria) (Becattini, 1998; 2000; Cooke, 2001; Maskell, 2001). È necessaria una più avanzata qualità dei contesti spaziali e territoriali per attrarre investimenti e talenti e co-generare innovazione condivisa volta alla mobilitazione partecipativa delle creatività individuali e collettive da crescente varietà (offerta e domanda), stimolando anche il cambiamento della cultura d’impresa e dei modelli gestionali prevalenti inadatti alle trasformazioni e all’iper-competizione globale in corso (Teece, 2007).

Oltre la mainstream neoliberista
Una strada che implica in modo diretto una scomposizione e un contenimento del pensiero e delle pratiche neo-liberistiche prevalse negli ultimi quarant’anni e che, di recente, sono state sottoposte a critiche serrate da studiosi e istituzioni che le hanno ‘protette’ per decenni (FMI, BEI, Banca Mondiale, ecc.). Una ortodossia ideologica che si era centrata, in primo luogo, sulla liberalizzazione dei capitali, da sottrarre a tutti gli ‘intralci nazionali’ che ne limitano i flussi alla ricerca delle remunerazioni più convenienti sul piano planetario con un radicale disaccoppiamento dall’originario supporto all’economia reale e alle sue trasformazioni; e, in secondo luogo, per ciò che viene identificato con il termine di “consolidamento fiscale” che connette la necessità (vincolo) di tagli di spesa pubblica ogniqualvolta un Paese è indebitato. Prospettiva che ha trovato in UE la Germania e i Paesi nordici a sostenere la logica delle due fasi: prima il risanamento dal debito e poi il rilancio, attraverso i devastanti effetti delle cosiddette politiche di austerità. Due nodi che, connessi, hanno determinato l’avvitamento di bassa crescita e sfiducia, avendo generato la più diffusa e profonda diseguaglianza di reddito e di opportunità di investimento dalla Grande Crisi del ‘29, così da indebolire fortemente le conquiste sociali, formative e di reddito realizzate dalle classi medie quale connettore tra chi ha e chi non ha, le quali si erano rivelate il vero fuelling delle dinamiche ascensionistiche dal dopoguerra fino agli Anni 80.
Sul primo punto, le analisi citate mostrano che dai 150 flussi di capitali monitorati verso 50 Paesi stranieri dagli Anni 80 in poi nel 20% dei casi si sono generate crisi. Mentre sul secondo punto, connesso con le politiche di austerità, si è fatto notare l’emersione di costi di welfare dovuti a effetti distorsivi sia dal lato dell’offerta (salari decrescenti e flessibilità crescente nel mercato) sia da quello della domanda (sfiducia strutturale dal lato dei consumi). Tutto ciò ha prodotto il combinato disposto delle due forze verso tassi crescenti di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile. Smentendo sostanzialmente le tesi che hanno guardato in questi anni agli effetti espansivi delle politiche di austerità collegando la riduzione della spesa alla crescita della disoccupazione, e dunque della diseguaglianza di lungo periodo attraverso riduzione del reddito disponibile e sfiducia nelle prospettive di investimento, si è innescato l’avvitamento deflazionistico che ci accompagna da ormai un decennio, anche con un cambiamento del ruolo dello Stato in senso innovativo (Mazzucato, 2014). Per avviarsi lungo questa strada servono nuovi profili di impresa (Pilotti, 2015) che fronteggino la complessità e la competiti vità globali (Prahalad e Ramaswamy, 2004). Tali profili dovranno accompagnarsi a mutamenti non banali della formazione manageriale nelle business school per fondere formazione tecnico-specialistica con quella umanistica ed etica, insieme alla generazione di alleanze e di reti, secondo logiche partecipative e orizzontali che facciano decadere la prassi del ‘controllo’.

Traiettorie di miglioramento del profilo delle imprese italiane oltre la crisi del controllo nella società aperta della conoscenza
La domanda dalla quale partire è la seguente: “qual è il profilo medio delle imprese italiane e come possiamo aiutarlo a evolvere, spingendolo verso una mutazione necessaria e ineludibile quale contributo alla crescita del Paese di fronte all’incremento di complessità gestionale e operativa, oltre che strategica, innescata dai processi di globalizzazione, dalla società e dall’economia della conoscenza, dalla digitalizzazione accelerata dalla manifattura 4.0 e dalla fabbrica intelligente?
È evidente che il miglioramento del profilo dell’impresa, dell’imprenditore e del management significa anche ottimizzazione del contesto nel quale vivono altri fattori: riforme istituzionali, politica economica e industriale, mercati del lavoro e demografia, cultura e istruzione media e medio-alta, ruolo dei territori e delle infrastrutture ivi residenti. Qui ci limiteremo a guardare al profilo delle imprese e al loro ruolo nel cambiamento in corso per poterne avviare – anche con una adeguata e seria politica industriale – il cambiamento necessario che riguardi un più complesso ecosistema emergente, utile a fronteggiare l’iper-competizione di mercati globali ormai consolidati nell’intreccio inestricabile tra società della conoscenza e fabbrica intelligente.
È noto che si dovrà agire, in particolare, operando su molteplici gangli del cambiamento d’impresa: dalla cultura e valori imprenditoriali alla struttura societaria, dalla propensione al rischio all’investimento in innovazione tecnologica, dalle risorse organizzative alla visione dei mercati, dagli investimenti in formazione del capitale umano alla qualificazione dei contesti spaziali di attrazione degli investimenti. Tale cambiamento auspicato sarà in grado di innescare un innalzamento delle soglie di produttività e attrattività dei talenti, attraverso una superiore apertura societaria e una maggiore disponibilità agli investimenti in formazione tecnica e in alta formazione: spinte utili a far ripartire quella mobilità sociale imprenditoriale verso l’alto che si è fermata negli Anni 90 del secolo scorso quando l’economia distrettuale ha iniziato a dare segni di rallentamento. Un contesto dove le semplici logiche di nicchia (o super-nicchia) non erano più di per sé sufficienti, per la loro crescente mutevolezza e sostituibilità (Basile, Giunta, Nugent, 2003), a trainare l’intera economia, nonostante il contributo alla crescita recente dovuto all’export derivi proprio dai distretti. Quei distretti estesi che hanno saputo auto-selezionarsi e ibridarsi integrandosi con nuove piattaforme organizzative e di business, con nuove tecnologie ed esplorazione di nuovi materiali, volti alla soddisfazione della domanda degli utenti finali.
In generale diciamo che non basta guardare alla domanda e a come stimolarla, se con abbassamento dei prezzi e/o con riduzione di tasse, ma dobbiamo guardare anche al lato delle imprese, alla loro struttura e alle modalità prevalenti di presa delle decisioni, alla loro percezione del rischio e dell’innovazione nel medio- lungo termine. Le nostre sono imprese che hanno un assetto societario spesso sotto-patrimonializzato e a basso tasso di managerializzazione, con una struttura dimensionale spesso troppo fragile per poter reggere la competitività dei mercati globali e tuttavia con grandi opportunità di personalizzazione e di valorizzazione del brand Italian Style (made in Italy o made by Italy).
Se negli Anni 70 e 80 bastava esplorare e presidiare con il proprio campionario o gamma di prodotti i mercati internazionali per esportare al meglio e ridurre i rischi differenziando le destinazioni, ora non è più sufficiente. Serve robustezza organizzativa e finanziaria, consapevolezza dei contesti nei quali si entra e nei quali si deve consolidare la propria presenza con alleanze forti e solidi rapporti commerciali-industriali-finanziari; perché esportare non basta per essere internazionalizzati e un approccio manageriale multiculturale nel costruire alleanze e network aperti a scala globale è quasi un imperativo. Non si tratta tanto di un semplice problema dimensionale, quanto di modalità organizzative della crescita. L’azione di “forti Pigmei e deboli Watussi”, come diceva Becattini nel 1979, non è più adeguata a fronteggiare l’iper-competizione globalizzata in corso, dominata da open innovation process (Chesborough, 2003) e dalle sfide della conoscenza descritte da Nonaka oltre trent’anni fa. Pigmei e Watussi vanno stimolati ad allearsi in larghe e profonde piattaforme integrate, dense ecologie entro veri e propri ecosistemi, reti di filiere dinamiche aperte e resilienti, capaci di adattamento continuo.
Dunque, se, da una parte, si può concordare sulla diagnosi dei gap del Paese (infrastrutturale, di innovazione, di produttività, di qualità del capitale umano, ecc.), dall’altra, l’accordo è minore sull’analisi delle cause e, in particolare, di quelle che attengono al profilo imprenditoriale, gestionale e dimensionale delle nostre imprese. Certamente le condizioni esogene limitanti sono note:
• business environment inadatto;
• istituzioni inefficienti e burocratiche;
• debolezze promozionali del made in Italy e dell’attrattività turistica;
• rigidità del mercato del lavoro (attenuato dal Jobs Act, ma certo non risolto);
• fragilità e frammentarietà degli investimenti pubblici nell’istruzione media e alta, con poche misure per il rientro dei cervelli (nonostante pregiate iniziative, come il Progetto Natta, ma isolate se non inserite entro un quadro sistematico, strutturale e continuo di azione sul sistema tecnico-scientifico e dei rapporti universitàimpresa).

Ma l’economia reale non si può migliorare solo a partire dalle condizioni esogene. Occorre considerare anche:
• la qualità del capitale umano aziendale e le sue scelte strategiche, la natura dei processi aziendali (rigidi o fluidi, verticali o orizzontali);
• le scelte decisionali (settoriali o intersettoriali, focalizzate o aperte, ecc.) spesso scaricate su logiche di breve termine e più orientate alla salvaguardia del patrimonio che alla capacità di produrre reddito;
• i caratteri e gli stili gestionali dei top manager, insieme ai comportamenti della proprietà e degli azionisti di riferimento;
• il ruolo delle famiglie nella gestione e nella manutenzione proprietaria (quanto aperte a manager scelti fuori dai perimetri familiari e/o amicali come per i soci lungo il perimetro proprietario e secondo criteri di indipendenza);
• la cura del contesto di “prossimità” nel quale l’impresa affonda la propria storia e le proprie origini identitarie, agendo su una crescita osmotica per realizzare tutti i potenziali di ecologie emergenti;
• la promozione del diversity management per accendere e stimolare risorse creative e un climax organizzativo più orizzontale.

Tali dimensioni negli ultimi trent’anni hanno pesato non poco sui destini di interi settori e aree geografiche o sulle trasformazioni di interi distretti specializzati. Per esempio, nel cuore del vecchio triangolo manifatturiero tra Milano, Torino e Genova; nel distretto della Pedemontana tra Torino e Gorizia; lungo la dorsale adriatica, madre della Terza Italia, tra Bologna, Rimini, Ancona e Bari; oppure sulla dorsale appenninica, tra Emilia Romagna e Toscana fino all’alto Lazio e giù in alcune sparse ‘macchie’ campane.
Effetto di ciò è stata l’incertezza decisionale e strategica, la ricerca protettiva dal rischio imprenditoriale, la riduzione dell’investimento medio, l’intreccio tra interessi familiari e aziendali e la conseguente confusione di ruoli, la sfiducia nel futuro, il short-termism e l’assenza di visione.
Un quadro, questo, che non deve nascondere il ruolo di grappoli di imprese medie che negli ultimi anni sono riuscite a sopravvivere alla crisi attraverso i supporti delle forze distrettuali e di contesti spaziali che comunque in molti casi hanno funzionato, seppure solo in sei regioni concentrate nel centro Nord e in Campania.

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 67000 circa – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419) 

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