La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Politiche retributive – Priorità: occupazione e merito

, , , , , ,

Antonio Rinetti, consulente di direzione Hr e Senior Consultant Eurosearch Consultants
Antonio Rinetti, consulente di direzione Hr e Senior Consultant Eurosearch Consultants

Antonio Rinetti, consulente di direzione Hr e Senior Consultant Eurosearch Consultants, e precedentemente direttore Hr in Mediobanca, ci offre un quadro di rilievo sull’evoluzione delle politiche retributive data la sua trentennale esperienza in azienda.

Il primo punto fermo è: “Ci si occupa di politica retributiva chiaramente solo se l’azienda è oggettivamente in buona salute ed efficiente. Anche perché in caso contrario vige il contenimento dei costi o, peggio, tagli a retribuzioni e posti di lavoro.
In questo momento sono chiare però le priorità di tutti: occupazione e garanzie di mantenimento del posto di lavoro. A differenza di qualche anno fa in cui, in presenza di utili rilevanti, era importante puntare su incentivi che premiassero il merito di buone performance. Per fortuna ci sono delle aziende che vanno bene e possono fare azioni in questo senso”.

Quindi in un Paese in crisi le aziende ‘privilegiate’ su quali principi basano le loro scelte?
“Non ho dubbi –dice Rinetti− secondo meritocrazia. Mi stupirei se ci fossero ancora aziende che premiano la fedeltà in azienda come trent’anni fa. E comunque sarebbero eccezioni. Le risorse sono limitate e vanno distribuite alle persone meritevoli e che danno valore aggiunto e sostenibile, cioè performance che portano vantaggi nel lungo termine, non solo ‘nell’immediato’”.

Il binomio perfetto è quindi: salute economica dell’azienda coniugata a meritocrazia. Secondo la sua esperienza e opinione, quali sono le preferenze delle persone a livello retributivo, di incentivi e servizi?
“Verifico dinamiche diverse soprattutto nel confronto generazionale. I meno giovani hanno maggior necessità di stabilità occupazionale, perché i rischi connessi a un’eventuale perdita del lavoro sono elevati e possono protrarsi nel tempo. Per questa ragione le imprese tendono a premiare le loro performance con sistemi di welfare preferibili a incentivi in denaro −al contrario dei più giovani− tassati dal fisco. Sono molto più apprezzati perché danno loro maggior tranquillità e garanzia di stabilità, si pensi per esempio assicurazioni integrative pensionistiche o per le spese sanitarie.
Di contro i lavoratori più giovani sono attirati da premi e incentivi in denaro e piani di carriera. D’altro canto sono meno attaccati alla logica del ‘posto fisso’ per diverse ragioni. Sono quindi più flessibili, hanno voglia di novità e crescita professionale. Tutto ciò sempre subordinato alla salute dell’azienda.
Sono molte le organizzazioni che, purtroppo, chiedono riduzioni di retribuzione, contratti di solidarietà, quando non chiudono sedi o licenziano persone. E, in ogni caso, anche le imprese che vanno bene, in un mercato ingessato come quello attuale, sono comunque più attente nel destinare risorse rispetto alle spese ‘a pioggia’ del passato”. In questo mercato in difficoltà ci sono anche aziende che possiamo definire più avanzate e che hanno la responsabilità di istituire comitati retributivi, o meglio, comitati di remunerazione, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero tutelare equità, merito, etica e sostenibilità delle retribuzioni.

Come sono gestiti, anche rispetto alla normativa?
Conoscendo piuttosto bene i contesti, Rinetti ci spiega: “I comitati di retribuzione sono una bellissima cosa. Sulla carta. Ma spesso non funzionano come dovrebbero. Sono stati creati per dare maggiore credibilità alle politiche aziendali, soprattutto delle società quotate, ma il problema di fondo è che a questi comitati partecipano sovente persone che non sono assolutamente esperte di retribuzione. Il tema è molto delicato, è una materia di competenza ‘tecnica’, oltre che di buon senso.
Purtroppo solo un numero esiguo di questi comitati è davvero formato da persone competenti. Si tratta sovente di estensioni dei consigli di amministrazione, piuttosto autoreferenziali: si occupano degli interessi del gruppo e spesso, anche in buona fede, i membri prendono decisioni riguardo cose di cui hanno una conoscenza non approfondita. Per questo hanno minor valore di quello che dovrebbero.
Inoltre si riuniscono normalmente una/due volte l’anno, quando ,al contrario, la materia delle retribuzioni dovrebbe essere presidiata con più assiduità e costanza durante l’anno.
Politiche retributive_RinettiUn dato tutt’ora molto diffuso è, per esempio, il coinvolgimento marginale di direttori del personale e consulenti esterni specializzati in politiche retributive. In alcuni settori ultimamente sono state emanate regole molto più strette che in passato: nei settori finanziari è intervenuta la Banca d’Italia con delle circolari ufficiali per rispondere a normative europee con formule di sistemi retributivi complesse , ma che richiedono al contrario figure estremamente competenti che le gestiscano. Ma capita più spesso di dover spiegare ai membri dei comitati le formule e i modi per gestire queste dinamiche.
I comitati sono decisi dai consigli di amministrazione sovente senza il diretto coinvolgimento degli interpreti più idonei a fornire le informazioni più corrette, che sensibilizzino sugli impatti a lungo termine che le politiche retributive possono avere”.


Ci sono dei margini di miglioramento?

“Enormi. Per esempio si potrebbe cominciare da veri e propri corsi di formazione in merito ai membri dei C.d.A. Coinvolgere esperti e consulenti delle politiche retributive, direttori del personale e anche i CFO. Anche perché la materia è scritta su circolari normative di non facile lettura”.

Come funziona negli altri Paesi europei? Quali le differenze a cui adeguarsi?
“In linea generale, soprattutto nei Paesi di matrice anglosassone, le politiche retributive sono più strutturate e codificate. Ma anche in questi Paesi ‘esempio’ si sono verificate cattive gestioni gravi quanto alcune assurdità italiane come il divario spaventoso, ulteriormente ampliato dalla crisi, tra gli stipendi di manager e dirigenti contro quelli dei dipendenti, e cioè quella che si definisce la forbice retributiva. E tetti minimi e massimi di retribuzioni ancora più estesi.
Questo acuisce ulteriormente la situazione di crisi, perché le persone con stipendi più modesti perdono ogni anno potere d’acquisto e si indebolisce sempre di più la platea dei consumatori. L’arretratezza italiana risiede anche in una mancanza di flessibilità. Vi sono politiche di retribuzione molto rigide: si dovrebbe lavorare di più sul variabile in funzione delle buone performance o dell’andamento aziendale, prassi invece maggiormente diffusa all’estero”.

Rispetto a questi temi pensa che delle normative ad hoc potrebbero aiutare?
“Non è necessario fare leggi apposite, anche perché fatta una norma si trova subito il modo di aggirarla”. Quindi ancora una volta il cuore del cambiamento è la cultura e condividere le buone pratiche. “Basterebbe buon senso e una serie di buoni modelli, ad esempio con la riduzione di compensi stratosferici di alcuni dirigenti di aziende con in più risultati poco positivi, mentre operai e impiegati hanno lo stesso stipendio da anni o con crescite medie dell’1% annuo… Il messaggio al Paese in questa situazione economico-sociale non aiuta”.

E non è fantascienza, ma cronaca quotidiana.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Cookie Policy | Privacy Policy

© 2019 ESTE Srl - Via Cagliero, 23 - Milano - TEL: 02 91 43 44 00 - FAX: 02 91 43 44 24 - segreteria@este.it - P.I. 00729910158
logo sernicola sviluppo web milano

Trovi interessanti i nostri articoli?

Seguici e resta informato!