
Reddito di base, verso un nuovo modello di società
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La crisi economica, unita a quella dei sistemi di welfare tradizionali e al grande sviluppo delle tecnologie, ha contribuito a portare al centro dell’attuale dibattito pubblico e politico – non solo italiano – il tema del reddito di base.
Il necessario ripensamento dei metodi di assistenza sociale e la possibile perdita di numerosi posti di lavoro a causa delle nuove macchine in grado di sostituire l’uomo hanno fatto sì che l’idea di un reddito uguale per tutti e incondizionato (indipendentemente dalla ricchezza personale e dalla ricerca di un lavoro) sia passata oggi da una lontana utopia a una concreta realtà.
Si tratterebbe di “un dividendo sociale, cioè una distribuzione universale di una parte della nostra eredità comune passata”, ha spiegato Philippe Van Parijs, Filosofo della politica belga e Professore all’Università di Lovanio nel corso del convegno Il reddito di base: un’utopia realistica? che si è tenuto il 14 maggio all’Università Statale di Milano.
“Il reddito di base è il risultato dell’accumulazione del capitale negli scorsi decenni, che verrebbe distribuito a tutti in modo uguale, prima a livello nazionale e poi idealmente a livello europeo e mondiale”, ha aggiunto Van Parijis, tra i principali teorici del basic income.
La differenza con il reddito di cittadinanza
A quanto dovrebbe ammontare il reddito di base? “Circa 200 euro al mese e gradualmente a salire”, secondo il filosofo belga, che ha sottolineato la differenza con il reddito di cittadinanza da 780 euro proposto in Italia dal Movimento 5 stelle.
Il primo infatti rappresenta “uno zoccolo o un pavimento su cui poggiare mentre si fa un lavoro parziale, permette di dedicare più tempo alla propria formazione e alla famiglia e di sperimentare altre attività con cui dare il proprio contributo alla società”. Inoltre non è inteso solo come denaro, ma anche in forma di servizi di welfare gratuiti e di qualità, dalla sanità all’educazione.
Il secondo, invece, è “un modello di assistenza sociale, condizionato alla disponibilità al lavoro e legato alla soglia di povertà, che può anche consentire di non lavorare per un certo periodo di tempo”.
Uno strumento per combattere la vulnerabilità
In Italia il fatto di dare reddito in modo incondizionato è considerato da molte persone ‘passivizzante’. Ma in realtà, secondo i sostenitori di quest’idea, può diventare uno strumento potente di libertà dalla famiglia, dai datori di lavoro e dall’amministrazione pubblica. Una libertà di scelta contro la vulnerabilità del nostro tempo, che consiste in uno stato di incertezza sociale ed economica e quindi in una minora capacità di autodeterminazione.
È quanto emerso dalla tavola rotonda nell’ambito del convegno a cui hanno partecipato Elena Granaglia (Università degli Studi Roma Tre), Chiara Saraceno (Università di Torino), Corrado Del Bò, Ilaria Madama, Marcello Natili e Nicola Riva (Università Statale di Milano).
Avere un reddito di base, hanno spiegato, darebbe maggiore libertà di non accettare lavori sottopagati, ma anche di avere più tempo per attività non di mercato (come cultura e volontariato), che arricchiscono la vita sociale comune.
Un reddito di base incondizionato potrebbe dare quindi un contributo nella lotta contro lo sfruttamento, che approfitta proprio della vulnerabilità altrui con trattamenti impropri.
Ancora troppe resistenze in Italia
Tuttavia non mancano, soprattutto in Italia, le obiezioni di principio all’idea di un reddito per chiunque. “Perché dare soldi a chi non fa nulla? Il reddito di base è piuttosto un disinvestimento nel lavoro. E come andrebbe finanziata questa misura?”.
I sostenitori del basic income rispondono che le risorse comuni sono quelle utili per coprire questa spesa: dalla riduzione delle pensioni più alte al taglio delle spese e degli sprechi in altri settori.
A sostegno di questa tesi c’è poi la differenza tra l’attuale reddito di inclusione previsto in Italia (di cui può usufruire solo una parte delle persone considerate povere), il reddito di cittadinanza (legato allo svolgimento di un lavoro e con diverse zone d’ombra) e il reddito di base. Quest’ultimo è l’unico non selettivo: viene dato in maniera uguale a tutti, ricchi e poveri, e soprattutto è incondizionato.
Per concretizzare questa idea nel lungo termine – ammettono i sostenitori – serve però un maggiore consenso politico che oggi non c’è, nonostante l’ascesa del M5S alle ultime elezioni che ha portato maggiore attenzione sul tema.
Infine bisognerebbe renderla giustificabile rispetto a quelle resistenze culturali che sono ancora presenti nella nostra società. Per farlo, c’è chi suggerisce di iniziare a destinarlo ai neonati o ai giovani dai 18 ai 35 anni, considerati nella nostra situazione economico-sociale i più innocenti, i più deboli e i più vulnerabili.