La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Tag: cambiamento organizzativo

di Martina Galbiati

In una sessione di coaching di gruppo abbiamo pensato al valore della fatica. Valore e fatica, due termini che di primo acchito uno non penserebbe di associare: il primo ‘aggiunge’, l’altro ‘toglie’ (il sonno, il sudore, la voglia). Eppure non c’è un mantra che non inviti alla santificazione dello sforzo, della resistenza, che diventa resilienza se siamo capaci di elevarci a uno stadio che rasenta il divino. Parole per pochi oppure facili aforismi prodotti dal fatto che ormai, soprattutto sui social network, possiamo dirci tutti filosofi dell’ammonimento spicciolo?
Se pensiamo alla fatica, a quella che ci assale solo all’idea di un appuntamento con quel cliente con pretese dell’altro mondo, quella che ci fa premere lo snooze della sveglia per due, tre, quattro volte di fila la mattina prima di scendere dal letto e ci fa avviare per strada più incarogniti di quando probabilmente rientreremo la sera, di certo la prima reazione non è proprio quella di accoglierla a braccia aperte per cercare il ‘valore’. Anzi, l’impulso più immediato è quello di fuggirla, a tutti i costi. Gli espedienti e le alternative che la nostra mente è in grado di elaborare per evitarla sono fulminei e delle volte davvero fantasiosi. Sono frutto dell’evoluzione del cervello animale che, di fronte a un problema, cerca di elaborare la soluzione più ‘economica’, dove il risultato ottenuto è inversamente proporzionale allo sforzo messo in campo.
La riflessione di gruppo continua: quindi cosa fa muovere le gambe di un maratoneta che, sadicamente, si pone l’obiettivo di correre quei 42 interminabili chilometri? Il parallelismo con lo sport ci ha aiutato a dare un senso a quello che apparentemente sembra un ossimoro.
Pietro Mennea diceva: “La fatica non è mai sprecata: soffri, ma sogni”. Non voglio risolvere la questione in maniera spiccia e superficiale con una di quelle citazioni che poco fa ho deprecato, però probabilmente in questa troviamo una chiave di lettura, che risuona familiare permolti, soprattutto per chi riesce facilmente a pensarsi in tenuta da corsa, sfruttando il parallelismo con la fatica che mettiamo in campo nello sport.
Non ho mai amato gli sport agonistici, dove c’è sempre un vincitore e molti vinti: li ho sempre ritenuti uno stress inutile da cui non riuscivo a trarre godimento come vincitrice parte di un gruppo (predicatori del team building, siete autorizzati a bannarmi). Negli sport di squadra hai sempre a che fare con una mezza vittoria e una sconfitta annacquata delle molte teste in campo: il successo e l’insuccesso sono sfocati. Ho sempre preferito dare conto solo a me stessa, il che mi pone di fronte il più delle volte a un giudizio doppiamente implacabile perché tra sé e sé non ce la si racconta. Nella corsa siamo solo io e il cronometro: tanto incurante quanto implacabile nello scandire i minuti, nel registrare pedissequamente il mio ritmo e non si distrae mai. Eppure, in fondo al sentiero lungo cui le gambe galoppano, la nostra mente ha piazzato qualcosa che fa davvero presa, perché tutti quelli che corrono sono rivolti lì, verso una forza che non vedono, ma che esercita un’attrazione magnetica. L’atto di sognare, carburante della nostra corsa nominato nella frase di Mennea, si riferisce all’ambire il possibile, al desiderato ma non ancora concretizzato, all’aspirazione. In fondo alla nostra corsa (e alla nostra fatica) c’è il cambiamento, il miglioramento. E quello che ci spinge a iniziare, a proseguire e a insistere è proprio la percezione di un vantaggio che al momento della partenza non possediamo, ma sappiamo essere possibile, a seguito del nostro lavoro. Può trattarsi di un aumento di stipendio, di una pacca sulla spalla, di una soddisfazione personale o di un plauso sociale, ma certamente il vantaggio deve essere all’altezza delle nostre aspettative e deve essere rilevante per la persona cui è richiesto lo sforzo. Devo poter percepire che, in fondo alla fatica, c’è una versione migliore di me, della situazione da cui ho iniziato. Per questo stesso motivo la percezione della fatica aumenta, sul lavoro così come in qualsiasi altro ambito, quando l’obiettivo non è condiviso da chi deve compiere un’impresa, ma viene semplicemente eseguito, per dovere, dopo essere stato impartito da altri. La coincidenza tra l’obiettivo di una squadra e il proprio non si verifica spesso, ma quando questo accade scatta un meccanismo virtuoso e potente come la carica di una molla: quello diventa il mezzo attraverso cui, con una percezione della fatica ridimensionata, raggiungeremo gli obiettivi. Non i loro, ma i nostri. 
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Dal paradigma ‘fordista’, fondato su una gestione burocratica e gerarchica dell’organizzazione, a quello ‘post fordista’, che presenta un abbassamento delle gerarchie e una centralità della conoscenza, per arrivare al modello ‘cellulare’, nel quale le imprese tendono a ridurre l’organizzazione seguendo i principi guida della coopetizione e dell’autogoverno. È questa l’evoluzione che, negli ultimi anni, ha modificato le logiche di organizzazione del lavoro e ne ha cambiato gli strumenti di governo, se non altro a livello teorico.
Dal controllo alla responsabilità, dalla competizione alla collaborazione, dalla segretezza alla condivisione, dalle strutture organizzative immutabili all’organizational design, dagli Yes Men alla valorizzazione delle diversità. Quanta di questa teoria si traduce oggi in pratica manageriale? Quante delle nostre imprese stanno recependo il nuovo paradigma e come hanno intenzione di porlo inessere? Che ruolo, infine, dovranno giocare i leader del futuro?
Su queste domande Sviluppo& Organizzazione ha organizzato la tavola rotonda dal titolo Organizzazioni senza gerarchia che si è tenuta il 18 gennaio 2016 per confrontarsi con alcuni HR director e responsabili organizzazione di aziende medio-grandi. Leggi tutto >

di  Vittorio D’Amato, Direttore del CeRCA, Centro di Ricerca sul Cambiamento e Apprendimento Organizzativo, e Direttore dell’EMBA, Executive Master in Business Administration della LIUC-Università Cattaneo. Coordinatore della Laurea magistrale in Economia Aziendale e Management Percorso in Management delle Risorse Umane della LIUC-Università Cattaneo.

La maggior parte delle organizzazioni utilizza modelli di management vecchi di almeno 50 anni e non più adatti alle nuove sfide. Reinventare il management e la leadership è di fondamentale importanza, in quanto il vantaggio competitivo non si ottiene solamente con un buon modello di business, ma anche con un valido modello di management. Un modello di business senza un modello di management è pura teoria, così come un modello di management senza un modello di business è perdente. L’articolo dopo avere affrontato e declinato la differenza tra Business Model e Management Model propone un nuovo modello di management dove le persone siano realmente i principali stakeholder. Leggi tutto >

Gli Autori:

– Davide Giacomini, Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Brescia.
– Mario Mazzoleni, Professore associato di Economia Aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università
di Brescia.
– Caterina Muzzi, Ricercatrice di Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di
Brescia. Leggi tutto >

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