La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Tag: change management

flessibilizzarsi

Oggi più che mai occorre flessibilizzarsi. Non eravamo abituati ad avere al tavolo un interlocutore fastidioso che non si accontentava di negozia­re qualcosa per ritenersi soddisfatto e continuare a servire. Il fatto è che, pur rendendoci conto che i tempi sono cambiati, ci si osti­nava ancora nella vecchia abitudine di considerare – e utilizzare – la tec­nologia come un mezzo, utile e, ta­lora, persino indispensabile, ma pur sempre uno strumento da maneg­giare con attenzione, avendo cura di seguirne gli sviluppi e preoccu­pati della sua crescente pervasività. Leggi tutto >

Grazie all’uso delle tecnologie sociali (Chui et al., 2012), i nativi digitali e i migranti digitali (Bennett, Maton, Kervin, 2008; Marzo e Braccini, 2016; Prensky, 2001) stanno sviluppando numerose nuove competenze che possono essere sfruttate anche nel lavoro. L’insieme di queste competenze costituisce la digital fluency (Briggs, Makice, 2011), definita come “l’abilità di raggiungere i risultati desiderati mediante l’utilizzo della tecnologia”, una meta-competenza che va ben oltre la semplice conoscenza di alcuni programmi e applicazioni (digital literacy). Coloro che sono digitally fluent hanno la capacità di manipolare digitalmente informazioni, sviluppare idee e utilizzare la tecnologia per raggiungere obiettivi strategici (Hsi, 2007). Leggi tutto >

Se è vero che l’interesse per il welfare aziendale continua a crescere sia tra i grandi Gruppi sia all’interno del dibattito pubblico, il nodo da affrontare nel prossimo futuro riguarda la mancata diffusione tra le micro, piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura produttiva del nostro Paese. Le realtà imprenditoriali più piccole non hanno spesso le risorse finanziarie – ma anche gestionali e organizzative – per studiare e implementare con successo progetti di welfare aziendale; per questo rischiano di rimanerne naturalmente escluse.
Oltre il mero vantaggio fiscale, si tratta di un tema culturale che ancora fatica a raggiungere le organizzazioni. Sulla scorta di queste riflessioni la rivista Sviluppo&Organizzazione promuove, per il quinto anno consecutivo, un progetto convegnistico la cui prima tappa del 2017 si è tenuta a Padova l’8 febbraio. Leggi tutto >

di Martina Galbiati

In una sessione di coaching di gruppo abbiamo pensato al valore della fatica. Valore e fatica, due termini che di primo acchito uno non penserebbe di associare: il primo ‘aggiunge’, l’altro ‘toglie’ (il sonno, il sudore, la voglia). Eppure non c’è un mantra che non inviti alla santificazione dello sforzo, della resistenza, che diventa resilienza se siamo capaci di elevarci a uno stadio che rasenta il divino. Parole per pochi oppure facili aforismi prodotti dal fatto che ormai, soprattutto sui social network, possiamo dirci tutti filosofi dell’ammonimento spicciolo?
Se pensiamo alla fatica, a quella che ci assale solo all’idea di un appuntamento con quel cliente con pretese dell’altro mondo, quella che ci fa premere lo snooze della sveglia per due, tre, quattro volte di fila la mattina prima di scendere dal letto e ci fa avviare per strada più incarogniti di quando probabilmente rientreremo la sera, di certo la prima reazione non è proprio quella di accoglierla a braccia aperte per cercare il ‘valore’. Anzi, l’impulso più immediato è quello di fuggirla, a tutti i costi. Gli espedienti e le alternative che la nostra mente è in grado di elaborare per evitarla sono fulminei e delle volte davvero fantasiosi. Sono frutto dell’evoluzione del cervello animale che, di fronte a un problema, cerca di elaborare la soluzione più ‘economica’, dove il risultato ottenuto è inversamente proporzionale allo sforzo messo in campo.
La riflessione di gruppo continua: quindi cosa fa muovere le gambe di un maratoneta che, sadicamente, si pone l’obiettivo di correre quei 42 interminabili chilometri? Il parallelismo con lo sport ci ha aiutato a dare un senso a quello che apparentemente sembra un ossimoro.
Pietro Mennea diceva: “La fatica non è mai sprecata: soffri, ma sogni”. Non voglio risolvere la questione in maniera spiccia e superficiale con una di quelle citazioni che poco fa ho deprecato, però probabilmente in questa troviamo una chiave di lettura, che risuona familiare permolti, soprattutto per chi riesce facilmente a pensarsi in tenuta da corsa, sfruttando il parallelismo con la fatica che mettiamo in campo nello sport.
Non ho mai amato gli sport agonistici, dove c’è sempre un vincitore e molti vinti: li ho sempre ritenuti uno stress inutile da cui non riuscivo a trarre godimento come vincitrice parte di un gruppo (predicatori del team building, siete autorizzati a bannarmi). Negli sport di squadra hai sempre a che fare con una mezza vittoria e una sconfitta annacquata delle molte teste in campo: il successo e l’insuccesso sono sfocati. Ho sempre preferito dare conto solo a me stessa, il che mi pone di fronte il più delle volte a un giudizio doppiamente implacabile perché tra sé e sé non ce la si racconta. Nella corsa siamo solo io e il cronometro: tanto incurante quanto implacabile nello scandire i minuti, nel registrare pedissequamente il mio ritmo e non si distrae mai. Eppure, in fondo al sentiero lungo cui le gambe galoppano, la nostra mente ha piazzato qualcosa che fa davvero presa, perché tutti quelli che corrono sono rivolti lì, verso una forza che non vedono, ma che esercita un’attrazione magnetica. L’atto di sognare, carburante della nostra corsa nominato nella frase di Mennea, si riferisce all’ambire il possibile, al desiderato ma non ancora concretizzato, all’aspirazione. In fondo alla nostra corsa (e alla nostra fatica) c’è il cambiamento, il miglioramento. E quello che ci spinge a iniziare, a proseguire e a insistere è proprio la percezione di un vantaggio che al momento della partenza non possediamo, ma sappiamo essere possibile, a seguito del nostro lavoro. Può trattarsi di un aumento di stipendio, di una pacca sulla spalla, di una soddisfazione personale o di un plauso sociale, ma certamente il vantaggio deve essere all’altezza delle nostre aspettative e deve essere rilevante per la persona cui è richiesto lo sforzo. Devo poter percepire che, in fondo alla fatica, c’è una versione migliore di me, della situazione da cui ho iniziato. Per questo stesso motivo la percezione della fatica aumenta, sul lavoro così come in qualsiasi altro ambito, quando l’obiettivo non è condiviso da chi deve compiere un’impresa, ma viene semplicemente eseguito, per dovere, dopo essere stato impartito da altri. La coincidenza tra l’obiettivo di una squadra e il proprio non si verifica spesso, ma quando questo accade scatta un meccanismo virtuoso e potente come la carica di una molla: quello diventa il mezzo attraverso cui, con una percezione della fatica ridimensionata, raggiungeremo gli obiettivi. Non i loro, ma i nostri. 
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