La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Tag: equal employer

Fabrizio Caprara
Presidente
Saatchi & Saatchi

Le nostre vicende professionali si intrecciano inevitabilmente con quelle personali.
Mentre scrivo questo articolo è in corso una fiaccolata contro l’omofobia che ha portato al suicidio di un quindicenne il cui solo torto era amare il rosa e dipingersi le unghie.
Gli elicotteri sorvolano Roma per la violenza antisemita degli ultras contro i tifosi del Tottenham il cui solo torto è essere legati alla comunità ebraica di Londra.
È evidente che le persone di buon senso non sono in grado di fermare certi fenomeni da soli. Ma ognuno, nel suo piccolo, può fare qualcosa. E i professionisti e le aziende possono fare molto perché sono i pilastri della società civile che oltre a creare profitto diffondono cultura.
La storia industriale è piena di scandali, bancarottieri e speculatori, ma è altrettanto ricca di figure esemplari che hanno lasciato il segno non solo con le invenzioni ma con il loro esempio. Perché la loro eredità storica è più preziosa di qualunque brevetto e di qualunque profitto.
Fra tutti mi piace ricordare John E. Fetzer, il magnate americano e grande paladino del potere di love and forgivenessnel mondo contemporaneo.
Oggi essere un equal employer non è più una novità né un gesto di apertura mentale degno di chissà quale encomio, ma è diventato un obbligo in quanto rappresenta per un’azienda uno dei requisiti fondamentali per sfruttare al meglio le potenzialità offerte dal mercato del lavoro. Così come è diventato un obbligo assicurarsi che, all’interno di un’azienda, non ci siano discriminazioni.
Gli altri relatori hanno affrontato in maniera più approfondita e competente questo argomento. Posso quindi portare solo la mia esperienza e passione personale nella battaglia contro le differenze.
Sono nato a Napoli, cresciuto a Roma fino a 15 anni. Poi la mia famiglia si è trasferita a Vicenza. Non conoscevo nessuno.
Un pomeriggio andai a studiare da una compagna di scuola. Suo padre mi chiese di dov’ero. Napoletano, risposi. E lui: diciamo partenopeo, da noi napoitan è un insulto.
Più che ferito rimasi stupito. La mia immagine di Napoli, città dove in realtà non ho mai vissuto, era ed è quella di una famiglia calda e accogliente. Una miscela di mare, sole e leggerezza e buona cucina. Era evidente che qualcosa non andava e probabilmente, accanto a una buona dose di razzismo, c’era un po’ d’ignoranza, e una cattiva educazione culturale.
Forse questo episodio ha avuto, magari solo in parte, un’influenza sulla mia storia professionale.
La pubblicità è un bellissimo lavoro. Parla a tutti anche quando si rivolge a target di nicchia, perché di solito si tratta di nicchie trainanti che influenzano i comportamenti di tante persone. Quindi rispondere a un brief come Tiscali che prometteva ‘più diversità = più ricchezza’, fare uno spot per un’auto con protagonista un gay o affrontare il tema della non discriminazione nei confronti di chi ha la sindrome di Down può servire a spianare la strada senza buonismo e affettazioni.
Le aziende che usano un linguaggio inclusivo nella loro comunicazione istituzionale e commerciale sono quelle che rassicurano e motivano i dipendenti perché sanno che l’unicità viene apprezzata, qualsiasi essa sia.
E magari a tavola la sera, parlando con i figli, si può affermare tranquillamente che il rosa è un bel colore, anche per i maschi. Leggi tutto >

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