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Seconda parte del resoconto della tavola rotonda di Sviluppo&Organizzazione Diversity management, il valore delle differenze per le organizzazioni, moderata da Chiara Lupi, Direttore Editoriale di ESTE.
A cura di
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I partecipanti
- Raffaella Bossi Fornarini, Adjunct Professor Multicultural Management, MIP – Politecnico di Milano
- Federica Di Sansebastiano, Diversity Leader Italy, IBM Italia
- Flaminia Fazi, Presidente, U2 Coach
- Paola Iemmallo, Human Resources Director, Hotel Principe di Savoia
- Massimiliano Maini, Vice President Human Resources Director, Frette
- Monica Poggio, Direttore Risorse Umane, Bayer
- Donatella Rettura, Process Designer e Membro Commissione Pari Opportunità, SIA
- Rossella Riccò, Senior Consultant Area Studi e Ricerche, OD&M
- Chiara Lupi, Direttore Editoriale di ESTE
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=&12=&Per =&2=& questo è un tema di grande interesse, e sottolinea come il vero fine della gestione multiculturale sia la capacità di sfruttare le differenze, non di ridurle. Per questo al MIP si occupa spesso della integrazione e valorizzazione culturale in progetti di M&A: “In questi casi lo strumento che utilizziamo è la due diligence interculturale. Nato per acquisizioni e fusioni internazionali, questo tool è ora diventato di uso comune anche per creare sinergie fra aree diverse della stessa organizzazione oppure per accelerare l’ingresso di persone in azienda. Lavoriamo anche molto sul project management interculturale con strumenti che mappano una serie di caratteristiche individuali, che chiamiamo ‘agilità interculturale’. Questa mappa permette al singolo di conoscere i suoi punti di forza ma anche le competenze da rafforzare.” Le domande sono: ‘Rispetto a queste diversità cosa/ chi deve cambiare o dobbiamo veramente cambiare?’. La Bossi Fornarini ci spiega: “In molte ricerche si sostiene che il raggiungimento di risultati sopra la media si raggiunga in team nei quali convivono le diversità. La chiave non è più ‘come curo la diversità’: le aziende devono saper fotografare la propria organizzazione ed esaltarne tutti gli elementi che ne fanno parte. Perché essere ‘diversi’ porta più innovazione e più idee e capacità di risolvere i problemi.”
A proposito dell’importanza di mantenere la propria identità, =&4=& ci racconta un progetto gestito in Banca di Roma: si trattava dell’inserimento di nuove persone provenienti da altri istituti bancari che durante le presentazioni hanno esordito con ‘Io sono un ex banca di…’. “Dovremmo lavorare tutti, per costruire un percorso basato sulla centralità dell’individuo e affrontare le persone come tali. In un sistema identitario le persone devono potersi distinguere in quanto ‘diverse’ anche se la complessità è insita nel bisogno psicologico di sentirsi distinto dagli altri. In Italia è anche un discorso culturale, si tende a costruire ‘qualcosa’ anche sull’opposizione del diverso. Come in un’alchimia, bisogna a mio avviso trasformare la diversità in una ‘normalizzazione’ che non impedisca l’inclusione: la partita si gioca su progetti con un percorso di appropriazione della propria identità che non sia diminutivo di quella altrui, ma anzi che valorizzi la conoscenza reciproca in modo costruttivo e permetta un ‘patto’ di accettazione e di scambio. Ci sarà secondo me nella prossima generazione un importante shock culturale all’interno delle organizzazioni che si troveranno italiani ‘di tutti i colori’ a differenza delle attuali nicchie manageriali italiane: per avere successo di qui a breve ci dovrà essere una maggiore capacità di attenzione alla particolarità e capacità dei singoli, e coltivarle positivamente in funzione dell’azienda, e non come velleità individuali come a volte ancora accade”. Ci si aspetta quindi una cultura manageriale più attenta a questi temi e che sappia affrontare gli argomenti anche con maggior consapevolezza.
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=&12=&=&6=& fa un’osservazione in merito all’approccio dei manager: “Noto spesso in loro un muro di preconcetti che creano un freno e in alcuni casi anche un blocco a qualsiasi tipo di diversità nel senso ampio del concetto. In questo momento storico, facciamo fatica a gestire e riconoscere come oggettivi anche alcuni eventi che se fossimo abituati ad approcciare con i principi del diversity invece apparirebbero del tutto normali. Un caso tipico riguarda la presentazione di candidature di persone che hanno perso il lavoro: spesso ci si interfaccia con loro pensando che è colpa del candidato se al momento si trova senza occupazione, anche quando i fatti dimostrano il contrario e per questo motivo lo si esclude preferendo persone occupate”.
Secondo =&3=& spesso i cambiamenti culturali sono legati a interventi normativi che obbligano a un ripensamento delle prassi consolidate e a una riflessione sui benefici del cambiamento. Ad esempio l’idea della necessità di inserire le persone con disabilità al lavoro ha avuto bisogno per affermarsi in prima battuta in un cambiamento delle norme, da questo è poi scaturita la considerazione che la diversità può diventare un valore aggiunto per l’azienda. In IBM Italia, per esempio, un gruppo di colleghi disabili, proprio in virtù della loro esperienza di vita, ha dato un fondamentale contributo all’azienda collaborando allo sviluppo di progetti di accessibilità informatica”. Rispetto alle differenze tra culture, =&19=& solleva un tema interessante, riflettendo su come in Italia “siamo molto aperti mentalmente quando i problemi non ci coinvolgono direttamente, sappiamo riconoscerli, ma li sentiamo lontani dalla nostra sfera e quindi non pericolosi. Quando usiamo il termine ‘cultura’ siamo proiettati lontano e paradossalmente anche più aperti al confronto, questo succede ad esempio se ci raffrontiamo con un cinese, che percepiamo ‘diverso’ da noi e siamo disposti a capirne e accettarne le differenze, piuttosto che con un lombardo, un laziale o un marchigiano rispetto ai quali, pur non conoscendone le tradizioni culturali, siamo meno predisposti ad accoglierne le espressioni…”.
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