C’è sempre un dio dove c’è da mettere ordine nelle cose.
Le organizzazioni, che per natura mettono insieme tante cose, non fanno eccezione: il dio che sovrintende a queste strutture e ai compiti che le governano, l’insieme di regole, di uomini e di posizioni, è proprio quello che chiamiamo
“potere”.
Un dio, di per sé, né benevolo né insofferente, semplicemente consegnato via via nelle mani di quelli che sono chiamati a interpretarlo, così che la sua funzione potrebbe essere considerata persino neutrale rispetto ai compiti che si trova affidati, se non fosse che il suo esercizio non prevede quasi mai interpreti imparziali.
Nato come regolatore di equilibri e di buone relazioni, con l’obiettivo di favorire convivenze altrimenti difficoltose, nei fatti il potere prima si adegua e poi ristruttura i contesti in cui opera in modo da garantire la propria continuità.
“Permanere” è la sua condizione originaria, che viene venduta, in un primo momento, come indispensabile a quanti si affidano alle sue arti, a tutela di una durata nel tempo in grado di rassicurare rispetto ai rischi di confusione che il mondo alimenta, e poi consolidata come monumento per cui richiedere tributi di obbedienza senza alternative.
Dal momento che la sua sostanza prende forma dalla posizione occupata, emigrando facilmente dalla condizione originaria di servizio a quella di controllo, nessun potere tollera di essere discusso “per il solo fatto di esistere” e la sua esistenza, che si legittima in prima battuta per il fatto di essere lì, in quel posto, con quel ruolo e quelle funzioni, scopre poi tutti i vantaggi di poter dettare in autonomia le regole del gioco, rendendosi indispensabile e non discutibile.
La rappresentazione iconica dell’organigramma
Per funzionare il potere ha soprattutto bisogno di coltivare le differenze e la distanza: perché uno comandi bisogna che ci sia qualcuno disposto a obbedire e questo diviene possibile quanto più il potere
si colloca in alto Leggi tutto >