Il ‘risultato’. Tutto in azienda si gioca sul risultato: con ‘
performance’ e ‘
merito’, forse la parola più abusata nell’aziendalese di capi e di manager.
Eppure è un participio passato. Esprime qualcosa che ormai è stato già fatto, quando invece si è chiamati a lasciare alle spalle tutto ciò che è stato già compiuto per affrontare nuove sfide e obiettivi. Come un abito usurato che al cambio di stagione va dismesso, il risultato è come la felicità, insostenibile leggerezza: provi a scolpirlo in un bilancio, a megafonarlo nei comunicati aziendali, ma non appena l’hai agguantato è già passato.
Come Achille che insegue la tartaruga, non è mai definitivamente raggiunto. È del tutto evidente che nelle organizzazioni, profit o non profit, private o pubbliche, si lavori a ogni livello di responsabilità per trasformare una prestazione collettiva in un risultato, e poi ancora, a ogni anno, semestre o trimestre, in nuovo risultato.
È questa l’azienda. Meno scontata però è la cognizione che dentro quel risultato vi sia –per evocare un ottocentesco paradigma di Karl Marx– lavoro contenuto: l’impegno, la tensione, le ansie, le aspettative di tutti coloro che hanno profuso energie e capacità nel processo produttivo. In questo senso il risultato è una variabile dipendente del lavoro contenuto, non del mercato. Perché il mercato è prima e fuori dei confini aziendali, spesso un alibi dietro cui si nascondono le responsabilità per gli obiettivi mancati.
Vi sono competenze invisibili, incorporate nel lavoro sul campo, nelle esperienze e negli speciali sentieri neurali degli individui, che fanno la differenza tra un risultato modesto e uno straordinario. Ikujiro Nonaka1 le ha definite “competenze tacite”, in grado di poter essere socializzate e di innescare una spirale virtuosa trasformandosi in conoscenze esplicite, codificate, reperibili, addirittura consolidabili in conoscenze organizzative.
Il punto intorno a cui ruota ogni risultato è esattamente qui: nella capacità delle Direzioni HR e dei manager di innescare questa spirale di generazione del know how e di mantenerla in moto nella direzione giusta, quella cioè della visione strategica dell’impresa. Fare formazione è questo.
Non servono né piattaforme né pillole, apprendimenti veloci, gamification, né scontati per corsi a tappe forzate su un saper fare o un saper essere che poi puntualmente si scontreranno con il quotidiano aziendale. Serve invece
disseppellire le competenze tacite, Leggi tutto >