La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Welfare aziendale 2.0: tra criticità, innovazioni e servizi

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Intervista a Giovanni Scansani

a cura di Daniela Rimicci

 

I più recenti trend, dalla Strategia di Lisbona al programma Europa 2020, hanno indotto i Paesi europei ad attivarsi con riforme strutturali che hanno toccato pensioni, politiche del lavoro e interventi di lotta all’esclusione sociale. In Italia, invece, essi non hanno certamente eliminato l’immobilità della spesa pensionistica e gli squilibri della spesa per il restante welfare pubblico.

Nel nostro Paese l’adozione di piani di welfare aziendale ha preso vigore in un contesto caratterizzato dal taglio della spesa del welfare pubblico e dai nuovi rischi derivanti dai radicali cambiamenti sociodemografici degli ultimi anni.

Esiste un’origine dell’interrelazione tra le dinamiche della crisi e la crescita di piani aziendali che rispondono alle esigenze di work life balance delle persone? In Italia cosa è stato fatto in tema di ‘protezione sociale’? Ne abbiamo parlato con Giovanni Scansani, CEO di Welfare Company, che racconta in questa intervista le origini del welfare di secondo livello in Italia e spiega come gestire piani strutturati, tra criticità, innovazione e servizi.

L’adozione di piani di welfare aziendale è un trend recente in Italia. Quali le ragioni secondo Welfare Company?
UID259BWS872WVPIl welfare aziendale, in sé, non è una novità. In Italia si afferma durante gli anni tra le due guerre in un contesto caratterizzato dall’avvio dell’industrializzazione moderna e dalla nascita di numerose iniziative di grande rilievo sociale (si pensi alla costituzione dell’INPS, dell’INAIL, alla tutela della maternità e dell’infanzia grazie all’ONMI, rimasta in piedi sino al 1975); nel secondo dopoguerra il welfare aziendale vive forse una stagione di minor protagonismo, pur nel quadro di grandi cambiamenti, perché siamo nel pieno dello sviluppo del welfare state che si protrarrà per un buon trentennio. Con le crisi economiche e finanziarie si accentuano, in Italia, le spinte verso politiche pubbliche di crescente austerità (ferma restando l’ipertrofia del sistema pensionistico) sino alle recentissime drammatiche contrazioni dei fondi destinati a dare risposte ai bisogni delle persone e delle famiglie.

Il legislatore cosa sta facendo, o non facendo, per sostenere famiglie e persone?

In questo quadro si assiste a un deciso orientamento verso interventi che il datore di lavoro, responsabilmente, decide di realizzare nel tentativo di integrare ciò che il welfare pubblico fa sempre meno. L’attuale stagione delle relazioni industriali, infatti, si svolge anche sul terreno della concessione di sostegni non monetari, aventi finalità sociali, che mirano ad aumentare il benessere individuale del lavoratore (e del suo nucleo familiare) con l’intento di ottenere ritorni tangibili sia sul generale contesto organizzativo dell’impresa, sia sui risultati economici (ad esempio con un minor assenteismo, con una maggiore capacità di attrazione di professionalità, con una generale maggiore produttività). Sono così tornate al centro del confronto alcune norme fiscali e alcuni interventi che le aziende possono inserire nell’ambito della contrattazione di secondo livello associando vantaggi reciproci condivisi con i lavoratori. Tutto questo nonostante restino esclusi dalla bilateralità alcuni degli interventi la cui attuazione è tuttora associata alle forme di un anacronistico paternalismo che testimoniano della miopia del legislatore.

Ci spiega meglio le cause di sviluppo del welfare nelle imprese?

L’attuale trend di sviluppo del welfare aziendale ha quindi, per semplificare, due macro-cause: da un lato, la crisi economico-finanziaria e la ridefinizione degli assetti occupazionali che non consente di inserire nelle piattaforme della contrattazione, come un tempo avveniva, richieste di incrementi retributivi esclusivamente cash (oggi allocati in tutto o in parte in servizi e prestazioni di welfare secondo la logica del total reward che al centro colloca i programmi di flexible benefits) e, dall’altro lato, la rilevante contrazione, progressiva e irreversibile, degli stanziamenti destinati ai servizi del welfare state.

Cosa significa occuparsi del welfare per un’azienda?

In sostanza, se alla crisi aggiungiamo la pratica dell’austerità, più o meno indiscriminata, e la improvvida decisione di tagliare il welfare pubblico (proprio quando ce n’è più urgente necessità) è facile comprendere perché, in questi ultimi anni, il bisogno di servizi di welfare e di prestazioni integrative richieste dai lavoratori sia particolarmente cresciuto. Queste macro-evidenze spiegano le ragioni della crescente domanda di welfare integrativo espressa dai lavoratori italiani: un welfare che le imprese sono chiamate non più a far passare (solo) come un plus della loro offerta d’impiego, ma a garantire come vero e proprio pilastro aggiuntivo del welfare pubblico.

Quali i suoi suggerimenti alle istituzioni italiane?

Suggeriamo di aprire gli occhi. Non intervenendo con una rinnovata e adeguata fiscalità e con sistemi incentivanti per le imprese virtuose (quelle che finiscono, di fatto, per aiutare lo Stato nell’opera di garantire, almeno in parte, una serie di sostegni il cui impatto complessivo è certamente anche di interesse collettivo e individuale), la politica appare fuori dal tempo presente e anche masochista. Si pensi alla tematica della conciliazione vita-lavoro e agli obiettivi di sostegno alla genitorialità (a fronte di tassi di natalità nazionale azzerati) o alle necessità di sostegno relative all’assistenza domiciliare (essendo a tutti noto quale sarà, a medio termine, la crescita del tasso di invecchiamento demografico e quali ne saranno le conseguenze sul piano dell’incidenza, ad esempio, delle non autosufficienze e quindi degli equilibri di vita per le persone e le famiglie rispetto agli impegni lavorativi). Non considerare che per un numero sempre crescente di famiglie e di lavoratori ciò comporterà rilevanti conseguenze di tipo affettivo, sociale e ovviamente economico significa disinteressarsi di aree di intervento che allo Stato, invece, farebbe comodo incentivare. Tenendo anche conto di una serie di effetti, diretti e indiretti, la cui somma giustificherebbe ampiamente non già  chissà quale complessa riforma, ma semplicemente un adeguamento di buon senso di un impianto normativo sostanzialmente già abbastanza completo, ma arretrato nei numeri e nelle dinamiche.

Qualche esempio concreto?

Proprio l’area della conciliazione vita-lavoro, prassi da favorire con determinazione, evidenzia disparità francamente non comprensibili. Essa è fiscalmente libera, ma solo in parte, sia da soglie massime sia da obblighi di liberalità ai fini della deducibilità e della decontribuzione (è il caso, ad esempio, delle spese per asili nido); mentre per un’altra rilevante area d’intervento (l’assistenza domiciliare o quella socio-sanitaria) è del tutto sfornita della medesima agibilità (sia sul piano della bilateralità sia su quello economico, a causa di limitanti soglie di esenzione che impattano negativamente soprattutto sulle PMI: alludo alla famigerata soglia del cinque per mille del costo del personale). La necessità di un intervento di riforma su questi e altri aspetti della disciplina fiscale è, poi, rafforzata dal rischio che il welfare aziendale si traduca in una causa di ampliamento del divario tra insider e outsider provocata, nel nostro impianto welfarista generale, non solo dal carattere occupazionale del modello, ma anche dalla minore possibilità per le PMI di offrire, con la stessa convenienza fiscale, soluzioni similari rispetto alle grandi aziende.

Qual è l’impatto del welfare aziendale sul lavoro e sull’organizzazione?

Un piano di welfare aziendale (PWA), progettato e realizzato sulla base di approcci scientificamente corretti, diventa un asset strategico per l’impresa che lo adotta. È un investimento che, come tale, deve poter dare un ritorno in grado di giustificarlo nel tempo e un PWA, una volta introdotto, non si dismette, ma semmai si perfeziona sulla base delle mutevoli esigenze di cui sono portatori i suoi beneficiari. Su queste premesse diventa possibile calcolare il ROI del piano di welfare aziendale includendo nella sua determinazione gli effetti che si registrano dopo la sua introduzione sul piano della produttività, dell’efficienza e del generale contesto di clima in azienda. Se l’impostazione del piano è corretta, esso è in grado di generare effetti anche esterni di importante rilievo come, ad esempio, l’incremento della capacità di attrarre risorse garantendo performance allineate alle attese di sviluppo dell’impresa (effetto employer branding) o il miglioramento del più generale rapporto con altri stakeholder e la collettività del territorio sul quale l’impresa impatta con la sua azione e la sua presenza.

Come si fa a raggiungere questo traguardo?

Per raggiungere questi obiettivi non è necessario chiamarsi Luxottica o Vodafone: un PWA si può fare anche in realtà meno dimensionate e anzi in molte PMI spesso si trovano articolazioni e soluzioni operative davvero innovative che nelle grade impresa sono meno frequenti e forse anche non sempre possibili, per il grado di complessità organizzativa che esprimono. Ovviamente le PMI soffrono, allo stato attuale, delle limitazioni di sogliapreviste dal TUIR e in genere tutte le imprese per via del desueto richiamo alla liberalità in riferimento ad aree di intervento che rappresentano il cuore di un PWA realmente efficace e sulle quali dovrebbe potersi incentrare l’accordo con le organizzazioni sindacali (OO.SS).

 

Leggi l’articolo integrale su Persone&Conoscenze, n° 95 aprile 2014

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