La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Welfare aziendale: frontiera dell’innovazione organizzativa

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Mai come oggi il tema del welfare aziendale ha scatenato un così vivo interesse da parte di tutti, pubblico e privato. Sempre più sono le aziende che decidono di mettere in atto iniziative di work life balance e programmi dedicati ai flexible benefit; e sempre maggiore è il coinvolgimento della politica, come si può osservare da alcune intuizioni riscontrabili nel Disegno di Legge sulla Riforma del mercato del lavoro.
Il 22 gennaio ci siamo ritrovati, per la prima volta a Roma, per discutere di questi temi insieme ad alcuni rappresentanti di istituzioni e aziende.

Le aziende sono luoghi di impulso per la sperimentazione e l’innovazione”, con questa premessa si apre il convegno romano sul welfare aziendale. I progetti di sviluppo dei servizi ai lavoratori – dalle iniziative di work life balance al ripensamento degli spazi e dei tempi di lavoro (smart working), dalla gestione della diversità e dei rapporti inter-generazionali fino ai piani di flexible benefit – si possono leggere alla luce dell’innovazione e del cambiamento organizzativo.
Al di là della speculazione teorica, per ottenere risultati concreti in ciascuna di queste aree, si pone il problema di una visione integrata, sistemica e orientata al cambiamento. Serve la consapevolezza di operare in un terreno di frontiera, dove occorre affrontare rischi e superare ostacoli non indifferenti.

Per Gianfranco Rebora, direttore della rivista Sviluppo&Organizzazione e professore ordinario di organizzazione aziendale presso l’Università Carlo Cattaneo – Liuc Di Castellanza, “serve un incontro tra politiche pubbliche e politiche di welfare intraprese dalle aziende. Le politiche pubbliche dovrebbero favorire il benessere dei cittadini e delle persone nelle organizzazioni. Viceversa, le politiche aziendali dovrebbero fungere da progetti pilota per guidare la mano delle politiche pubbliche”.

D’accordo si dice Alessandra Servidori, consigliera nazionale di parità del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “Dobbiamo favorire un avvicinamento tra la normativa e le buone prassi aziendali. Il Jobs Act sembra incoraggiare l’integrazione pubblico-privato nell’offerta di servizi per l’infanzia, ad esempio. Ma la nuova disciplina dovrebbe essere coordinata con la L. n. 92/12 che ha già previsto la corresponsione di voucher per l’accesso alla rete pubblica (e privata accreditata) di tali servizi. Dovremmo inoltre incentivare le aziende che decidono di investire nel welfare aziendale, procedere a certificare quelle che operano nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa, gestire meglio il mercato della consulenza e inaugurare un metodo di collaborazione sul territorio con le associazioni datoriali, i consulenti del lavoro e gli ispettori del lavoro”.

Cosa chiedono oggi le persone?
“Consistente è oggi l’offerta di servizi a supporto delle famiglie con figli e di tutela della salute, ma in un mercato occupazionale in continuo cambiamento come quello attuale dobbiamo renderci conto che le persone hanno sempre più la necessità di sapersi orientare, di potersi reinventare e soprattutto di mantenere alta la propria employability. Le politiche di welfare aziendale devono tener conto di questo, mettendo a disposizione percorsi mirati che guidino ogni dipendente nel proprio sviluppo personale e professionale.” Alessandra Giordano, direttore delivery e politiche attive del lavoro di INTOO ritiene che fare welfare aziendale voglia dire occuparsi della persona, non solo all’interno dell’azienda ma anche nel momento della sua fuoriuscita; nella ricerca dunque di una futura occupazione.

Come si porta il welfare in azienda?
“È complesso” secondo l’opinione di Antonella Marsala, dirigente di Italialavoro. “Per fare welfare aziendale tutta l’azienda deve essere coinvolta; partendo dal commitment del top management e arrivando alla partecipazione attiva dei lavoratori ai processi organizzativi. Serve un’attenta analisi dei fabbisogni, che cambiano in base ai cicli di vita delle persone. Occorre ridurre gli sprechi per allocare più risorse al welfare. Ci deve essere, infine, la consapevolezza di tutte le parti sociali: la dimensione contrattuale del welfare è imprescindibile se non vogliamo relegarlo agli spazi di liberalità del datore di lavoro.”

A che punto siamo oggi?
Secondo il Rapporto Welfare 2014 pubblicato da OD&M Consulting, la maggior parte delle aziende che a oggi hanno implementato programmi di welfare aziendale appartengono alla fascia medio-grande e sono principalmente filiali di grandi gruppi multinazionali; “le altre o non sono interessate oppure presentano enormi difficoltà nella gestione del piano e per questo motivo non se la sentono di intraprendere il percorso”. Rimanendo sui dati del Rapporto, Pietro Betto, senior consultant di OD&M Consulting, fa sapere che: “I servizi maggiormente erogati dalle aziende riguardano: ristorazione, assistenza sanitaria e gestione del tempo. Tali servizi hanno effetto benefico sulle persone e sulle organizzazioni soltanto se vengono erogati tenendo conto dei bisogni del singolo o dello specifico cluster di popolazione”.

La tecnologia aiuta
A supporto della traduzione in pratica degli interventi di welfare aziendale, ha acquistato una rilevante importanza la tecnologia e la capacità di creare sinergie tra le finalità proprie dell’intervento welfarista e alcune soluzioni hi-tech. “Tali soluzioni”, fa sapere Noemi Barcelluzzi, Key Account di Welfare Company, “anche se nate in altri contesti, si sono dimostrate in grado di accrescere le potenzialità del welfare aziendale, non solo semplificandone le usuali modalità di accesso e di fruizione, ma anche incrementandone il valore percepito da parte dei lavoratori. In questo modo si fanno promotrici della produzione di uno dei fondamentali output di un piano di welfare aziendale: l’incremento, a parità di reddito percepito, del potere di spesa dei dipendenti”.

La responsabilità delle aziende
Non ci sono dubbi sul fatto che oggi un’impresa per essere sana e sopravvivere in un economia complessa deve produrre profitto. “Ma il profitto può essere creato in tanti modi, per esempio tenendo conto del concetto di sostenibilità”, spiega Mauro Gatti, ordinario di organizzazione aziendale e gestione delle risorse umane dell’Università di Roma Sapienza. Al centro del concetto di sostenibilità sta la persona, nel suo cammino professionale e personale; dentro e fuori l’azienda. Ecco perché un’impresa che vuole prosperare deve tenere conto del territorio in cui opera e delle proprie risorse umane; deve farsi portatrice di una responsabilità sociale, non significando tuttavia il sostituirsi al sistema del welfare pubblico. “Si tratta di un’integrazione pubblico-privato che fa sì che il welfare aziendale non funga da base dei servizi, ma diventi un asset per lo sviluppo ulteriore del capitale umano”.

E le aziende cosa pensano?
Si parla di welfare aziendale come strumento collaudato, se consideriamo i classici servizi di assistenza sanitaria e previdenza sociale integrativa. “Ma oggi le aziende devono fare un passo avanti: intercettare i nuovi bisogni che emergono – frutto di diversità generazionali, di genere o culturali, per esempio –, incidere sui tempi vita-lavoro, mettendo a punto un’organizzazione più flessibile. Fare welfare significa creare un legame forte tra azienda e lavoratore. Coinvolgere tutti gli stakeholder è fondamentale” per Giovanni Airoldi, responsabile personale e organizzazione area energia del Gruppo Acea. “Altrettanto fondamentale è pensare a un efficace piano di comunicazione delle iniziative di welfare, così come utilissimo è il monitoraggio dei risultati.”

Si parla anche di internazionalizzazione della responsabilità, per quei gruppi come Neomobile che sono presenti a livello worldwide: “Dobbiamo far fronte a specificità nazionali che presuppongono l’esistenza di diversi contesti socio-economici e normativi, all’interno dei quali il nostro dipendente deve sentirsi ugualmente ingaggiato”, aggiunge Enrica Lipari, responsabile risorse umane di Neomobile. “Noi abbiamo messo in atto un’offerta che si distingue in tre cluster: tempo, denaro, vita. Nel primo caso il dipendente non risparmia denaro ma tempo – es: delivery della spesa, lavanderia collettiva –; nel secondo, ha un risparmio in termini di moneta – ticket restaurant, assistenza fiscale, cucina in ufficio –; nel terzo caso si è tentato di coinvolgere le persone allargando la loro partecipazione a iniziative aziendali – es: neomobile sporting club e spazi ricreativi.”

“Oggi le aziende non possono più ragionare come in passato, curando il dipendente a livello professionale – supportandolo nel fare carriera, aumentandogli lo stipendio, ecc. –, ma mancando dal punto di vista del supporto alla crescita personale. Bisogna ripensare in toto il rapporto azienda-dipendente e le relazioni industriali: la persona va valorizzata sia nel suo percorso in azienda sia nella sua vita privata”, ne è fermamente convinto Giorgio Mieli, responsabile ufficio relazioni sindacali di ABI. “È importante lasciare al dipendente la scelta se usufruire del premio sociale sotto forma di cash, benefit o in forma mista. Stando ai dati di una nostra ricerca, più della metà dei dipendenti (57%) percepisce il premio ancora sotto forma di denaro, ma una buona parte (25%) ha iniziato a riceverlo come welfare.”

“Non si può fare welfare senza guardare alle diversità che esistono in azienda; e nel nostro Paese siamo molto indietro rispetto a questo tema”, racconta Fabio Galluccio, responsabile people care di Telecom Italia. “La frontiera del welfare oggi è indubbiamente l’ambito della conciliazione vita-lavoro. Si parla, a proposito, di smart working per le persone con malattie genetiche; e, tra le altre cose, si ripensano i luoghi comuni (mense, asili nido) alla luce delle differenze di culto.”

“Fare rete tra imprese è indubbiamente un buon punto di partenza per portare iniziative a sostegno del benessere delle persone anche nelle PMI”, aggiunge Bruno Francesconi, responsabile progetto Welfare Card di Poste Italiane. “La parola d’ordine è condividere. Le grandi imprese possono diventare importanti attrattori e, partendo  dalle piattaforme di servizi offerti al proprio personale, proporre soluzioni per i dipendenti di altre aziende articolate sul territorio: una cosa che in Poste Italiane stiamo sperimentando con il progetto della Welfare Card.”

D’accordo è anche Gianpiero Tufilli, hr director di Sicamb: “Non dimentichiamoci che dobbiamo fidelizzare i dipendenti ma soprattutto le loro famiglie. Come? Comunicando! Dando rilievo alle iniziative! Altrimenti si vanificano gli effetti positivi delle politiche di welfare aziendale.”

Cosa ci si augura per il futuro del welfare aziendale?
Tutti – aziende e fiscalisti compresi – concordano infine sul fatto che la normativa va aggiornata e riviste vanno anche le norme di applicazione della stessa da parte dell’Agenzia delle Entrate. Non solo i tetti di spesa per i servizi di welfare aziendale sono anacronistici rispetto ai tempi e al costo della vita, ma anche alcuni termini – vedi l’odiatissimo ‘colonia climatica’ – sembrano trovare la propria fine con la chiusura del Secolo Breve.
Ci vorrebbe una normativa unitaria sul welfare aziendale che tocchi anche, e non solo, gli aspetti fiscali. Il TUIR non nasce allo scopo di regolare il welfare aziendale ed è, soprattutto, troppo datato come insieme di norme.
Servono oggi, a detta delle aziende che ci hanno dato la propria testimonianza, una mappatura dei servizi e una preparazione professionale di chi si occupa di welfare e di diversity management.
E infine, poiché – parafrasando il Magnifico – della “legge non v’è certezza”, manca oggi una legislazione più univoca e facilmente interpretabile/applicabile. Il rischio è che le aziende, muovendosi a tentoni, finiscano per scivolare sulle solite bucce di banana, vedendosi così aumentare, invece che ridurre, i costi del lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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