La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

universita italiana

Salvare l’università italiana

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Nel numero di Ottobre/Novembre 2017 (278) di Sviluppo&Organizzazione abbiamo pubblicato un primo commento sul libro Salvare l’università italiana. Oltre i miti e i tabù di Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri. Gli interrogativi formulati in tale occasione trovano ora risposta negli interventi di Bruno Dente, Renato Boniardi, Roberto Moscati e Francesco Varanini. 

Bruno Dente – Politecnico di Milano

bruno denteIl volume di Capano, Regini e Turri è  un libro ‘da battaglia’, che però si appoggia sulle numerose ricerche che gli autori stessi hanno condotto in passato in tema di politica universitaria.

Da questo punto di vista non stupisce non trovare una spiegazione dei miglioramenti che il sistema universitario italiano ha conosciuto negli ultimi decenni sia nel settore della didattica (numero di laureati, tempi di attraversamento, ecc.),  sia in quello della ricerca (con un trend che predata l’attivazione dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ANVUR), sia in termini di efficienza.

L’enfasi è, giustamente, sulla crisi, sulle sue ragioni (le ‘colpe’) e su come evitare i potenziali scenari negativi che una continuazione degli attuali trend renderebbe probabili. Va subito detto che chi scrive condivide buona parte della diagnosi, ritiene plausibili le prognosi negative e si riconosce pienamente in alcuni punti chiave delle terapie proposte, in particolare nella convinzione:

*che il puro e semplice aumento delle risorse a disposizione non risolverebbe i problemi;

*che è necessario introdurre elementi di differenziazione nel sistema in modo governato;

*che tale differenziazione non può avvenire per decreto, ma deve basarsi sulla scelta di strategie per i diversi atenei e all’interno degli atenei per le diverse aree scientifiche;

*che, a questo fine, lo strumento principale deve essere l’adozione di strumenti contrattuali tra l’autorità di Governo e i singoli atenei;

*che tali contratti, attraverso i quali va erogato il finanziamento aggiuntivo necessario per riportare l’Italia in linea con i principali partner europei, debbano ‘premiare il futuro’ e cioè finanziare progetti di sviluppo coerenti con le linee strategiche adottate dagli atenei stessi;

*che nelle strategie di sviluppo occorra dare maggiore centralità alla didattica (e alla ‘terza missione’) dato che sul versante della ricerca le università sono già attente.

Dove invece c’è dissenso è sulla strada proposta nel capitolo finale. In particolare:

*chiedere al governo nazionale delle chiare scelte strategiche sul sistema universitario è a dir poco irrealistico: se tali scelte non sono state mai compiute in passato non si capisce perché potrebbero verificarsi ora, in un periodo in cui l’opinione pubblica e i media sono altamente critici nei confronti dell’Università accusata spesso anche di colpe non sue; del resto la stessa cosa si verifica in molti altri settori di policy: l’Università non è un caso speciale;

*lamentare la debolezza del MIUR è assolutamente corretto, ma essa in verità non è differente dalla debolezza di quasi tutto l’apparato amministrativo italiano: anche qui non c’è nulla di speciale; la creazione di una unità organizzativa con 20/30 funzionari che dovrebbe prendere in carico il meccanismo di contrattualizzazione è al tempo stesso enormemente difficile da realizzare, e probabilmente insufficiente a generare all’interno degli Atenei l’elaborazione delle strategie necessarie e tanto meno a giudicarne la bontà;

*del resto se le Università – salvo non molte eccezioni – non sono state in grado di elaborare autonomamente strategie realistiche di sviluppo e le loro scelte – o non scelte – sono state essenzialmente il risultato di un parallelogramma delle forze tra i gruppi disciplinari più accademicamente potenti, non si capisce perché d’improvviso dovrebbero essere in grado di compiere scelte redistributive all’interno del loro Ateneo;

*in un contesto di questo genere – e così rispondo alla seconda domanda posta dal curatore di questa discussione – è facile prevedere che la contrattualizzazione si tradurrebbe in una ulteriore distribuzione di risorse in qualche modo proporzionale alla quota di FFO assegnato con pochi vincoli.

Quindi, se gli obiettivi sono condivisibili, ma la strada per raggiungerli poco convincente, occorre proporre altre strade.

Un possibile approccio è quello di ridurre drasticamente la complessità del sistema di governo attraverso una scelta di regionalizzazione delle politiche universitarie. Del resto è ciò che avviene in numerosi paesi europei come la Germania e in alcune regioni come la Catalogna e la Scozia.

In questi ultimi due casi è interessante segnalare come le comunità accademiche fossero inizialmente contrarie alla devolution, ma oggi ne siano sostanzialmente soddisfatte e come tale spostamento di baricentro abbia neutralizzato le peggiori conseguenze del governo ‘a distanza’, senza effettivamente minacciare l’autonomia degli Atenei, consentendo cooperazione tra le Università e garantendo una differenziazione sostenibile dell’offerta didattica e delle linee di ricerca.

Ovviamente chi scrive sente già le obiezioni sui rischi che una tale scelta comporta, ma in buona parte esse sono certamente figlie dello stesso conservatorismo che porta a escludere scelte istituzionali radicali – tipicamente la modifica dello stato giuridico dei professori universitari o l’abbandono del diritto amministrativo come modalità di funzionamento delle Università – equiparate curiosamente alla ‘privatizzazione’ o alla ‘aziendalizzazione’ del servizio pubblico (a proposito di colpa delle parole…..), quasi che bastassero queste due scelte per  trasformare gli Atenei in organizzazioni a fini di lucro.

E comunque non è detto che la regionalizzazione debba investire l’intero finanziamento dell’Università, ma potrebbe, appunto, essere limitata alla quota aggiuntiva da attribuire attraverso contratti di sviluppo, in modo da consentire una effettiva presa in carico dei differenti contesti territoriali, delle differenze tra Atenei della stessa regione, delle differenti domande delle popolazioni.

Se tale scelta fosse considerata impraticabile l’unica strada che chi scrive vede come possibile per generare all’interno degli Atenei la costruzione di strategie differenziate, è quella di fornire un effettivo supporto alla loro elaborazione. Ciò significa innanzitutto un supporto che goda dell’autorevolezza sufficiente a superare le resistenze accademiche interne a qualunque alterazione dello status quo.

In buona sostanza si tratterebbe di creare una sorta di ispettorato – formato da accademici al top della loro disciplina sia sul versante della ricerca, sia su quello della didattica (e in particolare della employability) – cui spetterebbe il compito di realizzare – o comunque di organizzare e valutare – delle peer review periodiche (per esempio ogni 6 anni in modo da farle coincidere con il mandato del rettore) con lo scopo di innescare all’interno degli Atenei la elaborazione di piani strategici realistici e finalizzati a raggiungere un rendimento sufficiente in tutte le funzioni e in tutti i settori di attività (anche eventualmente dismettendone alcuni) e buono o ottimo in alcuni di essi.

Ovviamente tali piani strategici dovrebbero rappresentare i contenuti del contratto tra autorità di governo e Atenei e dovrebbero essere attentamente monitorati e valutati sia dall’interno che dall’esterno.

Nessuna delle due strade sopra abbozzate – e che certamente dovrebbero essere molto meglio articolate – è facile e garantisce il completo superamento della crisi. Ma entrambe hanno il vantaggio di mettere al centro la ricerca dei nuovi attori – i governi regionali nel primo caso e la parte migliore della comunità accademica nel secondo – in grado di spezzare l’equilibrio sub-ottimale tra accademia e autorità di governo che gli autori bene documentano nel volume.

In altre parole cercano di rispondere alla domanda di chi è in grado di imprimere la svolta desiderata: in assenza di tale riflessione ogni proposta rischia di essere un mero esercizio di wishful thinking.

 

Renato Boniardi – Consulente aziendale

renato boniardiHo incontrato di recente un manager di 54 anni, direttore commerciale di una di quelle aziende italiane che danno prestigio al nostro paese. Parlando della sua famiglia mi ha detto che lui e sua moglie si sono sempre trovati d’accordo sul fatto di non lesinare mai sulla formazione scolastica dei loro quattro figli: parole che non capita frequentemente di ascoltare.

L’investimento in cultura è un prezioso indicatore di come la famiglia – e più in generale la società –  guarda al futuro, in particolare al futuro di lungo periodo. In questo quadro, l’istituzione universitaria rappresenta indubbiamente un tassello importante nel formare il puzzle culturale di una nazione.

A tal proposito, il recente libro di Capuano, Regini, e Turri Salvare l’Università italiana. Oltre i miti e i tabù offre non solo un’analisi approfondita ma anche un panorama di concrete proposte. È così che, con grande piacere, ho colto l’invito del direttore della rivista Sviluppo&Organizzazione a fornire il mio contributo al dibattito su come sia possibile migliorare l’Università italiana.

I miei pochi anni di professore a contratto di sociologia del diritto presso l’Università Statale di Milano non mi danno titolo per esprimere giudizi né tanto meno di proporre soluzioni o suggerire idee innovative. Le mie riflessioni saranno così frutto della mia attività professionale, dei tanti decenni trascorsi accanto alle aziende occupandomi di Risorse Umane. Nessuna pretesa quindi di verità assolute o certezze granitiche: mi limiterò a seminare dubbi, che riporterò in modo sintetico nelle righe a seguire.

Negli anni in cui si stava diffondendo la cosiddetta globalizzazione si sono sempre più diffusi corsi universitari di natura sempre più specializzati, il cui numero ha raggiunto vette imbarazzanti: una specie di parcellizzazione del sapere come risposta a una crescente e talora sconosciuta complessità. Affrontare scenari – economici, tecnologici, sociali – di grande complessità non richiederebbe in primis che lo studente (futuro manager o professionista) acquisisca i fondamenti delle materie che studia? Il conseguimento della laurea non è la conclusione di un percorso ma l’apertura di una porta che si schiude nel tempo a ulteriori approfondimenti e studi?

La didattica riveste giustamente un ruolo di crescente importanza non per una vanitosa ricerca di modernità ma per il concreto contributo che può dare nell’apprendimento. Al riguardo, il ‘mondo digitale’ì non potrà che essere un alleato prezioso e non un sostituto dei contenuti di quel ‘sapere obiettivo’, non immediato né privilegiato, che l’uomo può acquisire.

Non dimentichiamo che i problemi di oggi, e soprattutto quelli di domani, richiedono di avere alle spalle competenze e contenuti non solo forti e solidi ma anche aggiornati e aperti possibilmente a contributi trasversali: basti pensare al premio Nobel 2017 per l’economia assegnato a Richard Thaler, i cui “contributi hanno costituito un ponte tra le analisi economiche e psicologiche dei processi decisionali individuali”, come recita la motivazione dell’Accademia. Nelle aziende da anni si vedono spesso presentazioni che abbagliano con ‘effetti speciali’ ma che annoiano e talora irritano per quanto riguarda ricchezza e profondità dei contenuti. L’Università sarà in grado di essere in controtendenza?

La valutazione dei docenti è un tema che affascina e negli ultimi anni è diventato cool scriverne su importanti quotidiani nazionali. Si tratta di un processo di notevole difficoltà: solo coloro che ci hanno messo mano lo sanno e la difficoltà è in sostanza legata al fatto che c’è di mezzo l’uomo e non c’è algoritmo o sofisticata metodologia che lo possano sostituire. La valutazione è in sostanza un processo imperfetto: basta esserne coscienti.

L’Università può farne a meno: no, ci mancherebbe. Ma è prioritario mettere a punto un sistema di valutazione ad hoc per l’Università oppure, come accade nelle aziende ben strutturate, è più importante al fine di garantire la qualità dell’insegnamento avere un rigoroso processo di selezione, professori motivati e ben retribuiti? Tenuto conto del contesto socio-politico italiano, questa seconda via è indubbiamente impervia, faticosa e impopolare, ma non è forse un’imprescindibile base di partenza per il riscatto dell’università italiana?

Viviamo in un mondo sempre più tecnologico e anche l’Università pare esservi conformata. Si tende nelle varie facoltà, scientifiche e non, a stressare tutto ciò che riguarda la dimensione tecnica del sapere, dimenticando che il mondo tecnologico è una parte del più vasto mondo sociale. Così ci si trova di fronte a brillanti neolaureati che sanno tutto della struttura di un fiore ma non ne conoscono il profumo o che sanno a memoria i dati del PIL dei principali paesi europei ma non sanno cosa vuol dire per una famiglia arrivare alla fine del mese.

Sappiamo che una classica critica rivolta al mondo accademico è di essere lontano dalla realtà delle cose: negli anni questo distacco si è ulteriormente accentuato, rendendo così sempre più problematico l’attecchimento dei giovani nel mondo del lavoro, soprattutto per ciò che concerne i comportamenti organizzativi e le dinamiche relazionali interpersonali. Non ha forse ragione il professor Nicola Dioguardi, fondatore dell’Istituto ospedaliero Humanitas, quando afferma che nella formazione di un medico ci si è dimenticati della fondamentale importanza del suo sentire?

Il viticultore che produce raffinate bottiglie di barolo, l’artigiano che crea e realizza scarpe e borse di prestigio, il neuro-scienziato che si occupa dei neuroni a specchio parrebbero in prima istanza figure professionali distanti anni luce tra di loro. In realtà sono accomunati nel profondo non solo dalla passione ma anche da concetti cardine quali impegno, dedizione, sacrificio.

Negli ultimi anni l’Università, forse travolta da un mal interpretato senso di democratizzazione, è scesa pericolosamente a patti con il lassismo. Non è forse ora di riportare un sano rigore negli studi e di recuperare i caratteri distintivi di quel perduto ‘stile accademico’ seguendo il motto francese “le style c’est l’homme même”?

Concludo queste riflessioni con le parole del professor Fritz Barth, padre del famoso teologo luterano Karl: “L’intelligenza della storia è un dialogo ininterrotto, sempre più sincero e penetrante, tra la sapienza di ieri e la sapienza di domani”.

 

Roberto Moscati – Università di Milano Bicocca

roberto moscatiDopo un certo numero di lavori di sola analisi critica la condizione dell’università in Italia viene finalmente qui affrontata con una prospettiva duplice di esame delle cause dell’attuale situazione e di proposta di evoluzione in positivo della stessa.

La prima parte del volume esamina le responsabilità (definite come ‘le colpe’) della classe politica – segnatamente dei partiti nella prima e seconda repubblica – e del mondo accademico, in questo ricalcando due dei vertici del noto ‘triangolo di coordinamento’ delle forze caratterizzanti i sistemi d’istruzione superiore proposto tempo addietro da Burton Clark (The Higher Education System, Berkeley, The University of California Press).

A queste ‘colpe’ opportunamente vengono aggiunte quelle delle ‘parole’ che comprendono concetti usati in maniera funzionale a particolari interpretazioni delle tematiche accademiche e tra le quali trova collocazione anche il ‘mercato’, terzo angolo del triangolo di Clark. È difficile essere in disaccordo con gran parte dell’analisi retrospettiva delle vicende che hanno caratterizzato l’università italiana nei decenni scorsi; dalla quale analisi si trova conferma dei ritardi delle politiche nazionali, delle resistenze al cambiamento diffuse nel mondo accademico e delle difficoltà tradizionali a fare dell’istruzione superiore e della ricerca scientifica un tema centrale dello sviluppo del Paese (al di là delle dichiarazioni di principio).

L’approccio scelto dagli autori per la prima parte dell’opera è originale e utile per riassumere le ragioni del malfunzionamento del sistema. Anticipa altresì, nelle ultime pagine, il genere di proposte che vengono avanzate nella seconda parte come specifici grimaldelli per aprire una possibile fase di rilancio del sistema stesso. Infatti, l’analisi del passato si conclude con i paragrafi dedicati all’eccellenza e alla diversificazione.

Mentre la pars construens  (seconda del volume) si incentra sui temi della contrattualizzazione e dei dottorati, quali elementi di rottura destinati a sperabilmente produrre l’evoluzione positiva dell’università italiana.

La direzione comune delle due misure mira a formalizzare una diversificazione interna al sistema d’istruzione superiore stimolando, da un lato, l’assunzione di politiche istituzionali dei singoli atenei attraverso la definizione di quelli che in Francia sono i contracts quadriennaux de recherche,  attraverso i quali le università ottengono finanziamenti mirati dallo Stato e, d’altro canto, l’aggregazione dei  dottorati di ricerca in poche grandi Scuole.

Gli autori giustificano l’importanza dell’avvio – con l’introduzione di simili strumenti – di un processo di ‘differenziazione intelligente’ per l’incapacità dimostrata dal centro del sistema di guidare a distanza gli atenei verso obiettivi condivisi e per la scelta delle università di perseguire “politiche di tipo distributivo e collusivo” (p.137).

Ora, è difficile negare che il centro, dunque la politica dei governi che si sono succeduti negli anni, non sia stato in grado di condurre una politica di sistema sufficientemente coerente nel tempo e in grado di stimolare gli atenei attraverso incentivi e verifiche a distanza (ex-post). Le critiche che gli autori sviluppano nella prima parte del volume lo illustrano con chiarezza.  Ma le prevedibili conseguenze delle iniziative proposte non sembra siano state considerate sino infondo.

Infatti, (a) la politica di contrattualizzazione francese appare una via utile a responsabilizzare gli atenei spingendoli a sviluppare le proprie potenzialità con ricadute positive sull’intera produttività del sistema e forse anche incentivando la crescita incipiente dei rapporti col territorio e la ‘Terza Missione’. Ma spinge fatalmente ad attribuire ancora maggior potere alle discipline (come si avverte in Francia: C.Musselin, La longue marche des universités françaises, Paris, PUF), mentre richiede un interlocutore centrale (ministero) costituito da esperti in grado di dialogare con gli atenei  e valutarne i progetti. L’idea avanzata al riguardo dagli autori di un gruppo di esperti assunti ad hoc trascura se non altro le reali dinamiche interne alle burocrazie ministeriali.

(b) Quanto alla politica del dottorato va certo osservato come potrebbe utilmente rilanciare un settore in crisi di identità, ma sembra altresì l’avvio di una differenziazione ‘finalmente formalizzata’ degli atenei italiani, con la probabile conseguenza di una sanzione delle due categorie di università dedite alla ricerca e università dedite alla didattica.

Naturalmente gli autori sono consapevoli di almeno una parte delle conseguenze negative che i processi auspicati produrrebbero e avanzano dei correttivi atti a ridurre i disagi (il fondo finanziario per il Mezzogiorno). Tuttavia l’indirizzo di fondo resta quello della diversificazione –  riconosciuta e sanzionata – del sistema.

Va detto come questa tendenza si sia venuta diffondendo e abbia trovato vari sostenitori (tra gli altri, dalla Fondazione Treellle nel suo ultimo quaderno Dopo la riforma: università italiana, università europea?). Sono infatti diverse le logiche che spingono i sistemi d’istruzione in questa direzione.

In particolare, l’interpretazione neo-liberale delle funzioni della conoscenza applicata all’economia si combina con la competizione tra istituzioni che sono spinte a migliorare la propria caratura in termini comparativi a diversi livelli (i ranking internazionali si dividono in graduatorie nazionali) e le ricadute accentuano le differenze secondo la logica che chi più ha più ottiene e viceversa. Questo processo trova rispondenza crescente nella collocazione geo-economica delle istituzioni per la rilevanza acquisita dai rapporti tra università e intorno economico e sociale.

Nel volume si criticano gli indicatori utilizzati dai ranking ma li si considera comunque utili all’intero sistema d’istruzione superiore (anche se la correlazione non appare immediatamente evidente). D’altro canto, la presenza crescente dei sistemi di valutazione degli atenei accentua la rilevanza delle singole università in termini di distribuzione delle risorse e nei sistemi dove il ruolo dello Stato è tradizionalmente centrale (l’Europa continentale) si evidenzia la difficoltà di quest’ultimo a svolgere una funzione equilibratrice. Il caso dell’Italia è al riguardo emblematico per le ragioni che il volume ha messo in rilievo.

E tuttavia, nel quadro di interventi che gli autori propongono un elemento importante non sembra aver ottenuto sufficiente rilievo. Il ruolo della didattica, infatti, non viene considerato a sufficienza ed è per contro significativa l’ attenzione che viene ad essa rivolta da un numero crescente di atenei.

In generale si avverte nel volume un non sufficiente rilievo attribuito agli attori operanti nel sistema. In questa prospettiva non viene approfondita l’analisi delle ragioni degli insuccessi di quei pochi reali tentativi di riforma del sistema (quelli promossi dai ministri Ruberti e Berlinguer). Ma il rapporto tra elaborazione della normativa e sua realizzazione richiede la presa in considerazione dei soggetti che sono gli attori delle politiche e ne determinano il loro grado di successo. Qui si apre la dialettica tra stato, università e mondo accademico che spiega la direzione delle riforme di sistema.

Non considerandola non si può affrontare partitamente il nodo di fondo attorno al quale ruotano i sistemi d’istruzione (e quelli dell’istruzione superiore in particolare)  rappresentato dalle possibilità di coniugare merito, eccellenza ed equità. Da qui anche l’impossibilità di fare a meno di una politica alla quale contribuiscano – con modalità variabili –  i tre attori collettivi sopracitati.

Il lavoro di Capano, Regini e Turri ha – fra gli altri – il merito di stimolare riflessioni e contributi comprensivi di tutte le componenti del mondo universitario, non solo italiano come gli stessi autori hanno, del resto, trattato nel recente volume apparso in parallelo (Changing Governance in Universities. Italian Higher Education in Comparative Perpspective, Palgrave).

 

Francesco Varanini – Università di Udine, Direttore di Persone&Conoscenze

francesco varaniniSono nell’ufficio del Direttore Generale di una Università. Ha sul tavolo il libro. Lo prende in mano e mi chiede: “L’hai letto?”. “Sì”, rispondo, “mi sono anche impegnato a scrivere un commento”. “Non l’ho ancora letto”, mi dice, “ma me ne hanno parlato bene. È un libro dove ci sono dei numeri, mi hanno detto”. Intende dire che è un libro che fonda le opinioni su dati. “Anche se”, aggiunge, “scorrendolo non ho visto molte tabelle”.

Di fronte a tanti superficialissimi articoli giornalistici, di fronte a giudizi politici preconcetti, di fronte al susseguirsi sconnesso di riforme – che sfumano e vanificano il percorso verso l’autonomia statutaria, didattica e finanziaria delle singole Università –  l’analisi di Capano, Regini e Turri è benvenuta. Un capitolo è giustamente dedicato alle Colpe delle parole. Parole vuote. Improprie applicazioni di metriche e parametri di valutazione adatti ad altri tipi di organizzazione.

Nel libro si parla chiaro. Ben si coglie la costruttiva intenzione di andare oltre gli slogan e le posizioni di principio, oltre le contrapposizioni e le dispute ideologiche, nel tentativo di garantire al nostro sistema-paese quel servizio di formazione superiore di cui non può fare a meno. Gli autori, tenendosi lontani da facili utopie, coltivano una lucida speranza riformistica.

Ma colpisce il punto di partenza: la domanda, alla quale pure gli autori danno risposta nonostante tutto positiva: L’Università italiana si potrà salvare? Potremmo riformulare così la domanda: siamo davvero messi così male?

I capitoli dedicati al Futuro promettente coltivano la speranza, ma resta l’impressione di un pessimismo di fondo. Credo che allargando lo sguardo avremmo modo di dire che la nostra Università non è messa così male. Se così appare ai professori universitari, è forse perché il loro sguardo è troppo interno. E perché essi, chiusi come ognuno è nel proprio ruolo, mancano forse di esperienza al riguardo di comportamenti differenti dai comportamenti che si tramandano di generazione in generazione.

E mancano di esperienza al riguardo di altre organizzazioni, per esempio imprese private – abituate a muoversi costantemente sull’orlo della domanda: ci potremo salvare? Possiamo ricordare che in molte situazioni, accade che proprio il muoversi su questo orlo permette di scoprire le energie per risorgere continuamente, per snellirsi e per incrementare il rendimento.

Capano, Regini e Turri hanno il merito di offrire il punto di vista dell’accademia; o meglio: di un’accademia capace di autocriticare se stessa: i propri vizi, le proprie comodità, le proprie lentezze e le proprie chiusure. Questa autocritica, però, meriterebbe forse di essere approfondita. Il sottotitolo recita: oltre Oltre i miti e i tabù.

Forse sarebbe stato utile spendere qualche parola di più su tabù sui quali si fatica a incidere. Il costruttivo agire di professori come Capano, Regini e Turri, sia sul piano della didattica sia su quello della ricerca, così come sul piano della disponibilità a ricoprire ruoli di responsabilità interna, è in misura significativa vanificato dal comportamento di numerosi loro colleghi. Il cui comportamento si traduce in carico di lavoro aggiuntivo per i colleghi, e in un danno d’immagine che colpisce l’intero corpo accademico.

Ci sono seri motivi per sostenere che – pur a fronte dei sistemi di valutazione in uso – sia ancora viva una sostanziale, ingiustificata difesa collettiva della categoria.

Gli autori espongono dunque il punto di vista dell’accademia. E accolgono poi, come altro punto di vista, quello dell’unico altro attore considerato, a quanto pare, veramente significativo: la politica. La disamina è tutta giocata sulla dialettica tra questi due soggetti sociali.

Capano, Regini e Turri imputano alla politica, con pieno motivo, diverse colpe. La principale consiste nel non aver implementato “il ruolo pivotale del centro del sistema”. Certo compete alla politica definire una adeguata cornice di vincoli, necessaria per garantire “comportamenti coerenti con obiettivi sistemici ben definiti”.

Gli “attori più rilevanti” saranno forse questi due, accademia e politica. Ma certo non sono i soli. Se l’Università ha bisogno di essere salvata, non potrà essere salvata solo dall’accademia e dalla politica. Un dibattito sul presente e il futuro dell’Università, non può ridursi a un confronto tra l’accademia e la politica. Accanto all’accademia e alla politica, stanno in campo altri portatori di interessi: gli studenti, il personale non docente, le famiglie, la società civile, le imprese, in genere il tessuto sociale, economico e produttivo all’interno del quale l’Università vive e al quale l’Università è chiamata a offrire servizio.

Quel Direttore Generale può costituire un piccolo caso esemplare: non conta forse il suo punto di vista? Non potrebbe, in virtù della sua posizione, fornire indicazioni sui cambiamenti necessari? Non potrebbe essere una figura guida nel portare a buon fine i processi di cambiamento? Se, come è giusto, i professori non vogliono essere costretti a trasformarsi in manager, allora hanno bisogno di avere al loro fianco manager di qualità.

Sostengono gli autori che gli accademici, sia pure con diverse sfumature, si trovano d’accordo nel combattere le derive aziendalistiche che qualcuno vorrebbe imporre all’Università. Possiamo concordare: l’Università è una istituzione che persegue uno scopo sociale – potrebbe anche esser vero che per questo non ha nulla da imparare da imprese orientate al profitto.

Ma l’auspicato contratto negoziato tra il Centro del Sistema e la singola Università non può bastare per innescare un processo di cambiamento efficace. Né può, a regime, garantire un efficace funzionamento. Come ogni organizzazione, ogni Università può, con il contributo attivo di tutti i portatori di interessi, lavorare al proprio cambiamento. Ogni singola Università, usando degli spazi di autonoma azione di cui comunque di fatto gode, può migliorare se stessa.


Gianfranco Rebora

Gianfranco Rebora è Professore ordinario di Organizzazione e Gestione delle risorse umane all’Università LIUC – Cattaneo di Castellanza e Direttore della rivista Sviluppo&Organizzazione.

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