La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Donne e lavoro: le verità nascoste Luci e ombre dentro le organizzazioni

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di Chiara Lupi

Donne e lavoro. Perché continuiamo a parlarne? Le aziende premiano il merito, il genere non sembra essere un tema rilevante. Ma allora, come mai la percentuale di donne nel nostro mondo del lavoro non aumenta in modo significativo? Come mai il 40% delle donne continua ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio? Tra le dichiarazioni di chi sta ai vertici delle aziende e i dati sull’occupazione femminile qualcosa non torna. In questa storia di copertina partiamo dallo scenario che ci prospetta la Consigliera di Parità della Regione Lombardia per poi dar voce a imprenditori, manager e Direttori del Personale. E le donne? Difficile convincerle a parlare di sé. Un silenzio che urla.

Il governo ha preso atto di un contesto che, ancora oggi, non favorisce l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro. Il tasso di occupazione femminile, secondo gli ultimi dati Eurostat, si attesta in Italia intorno al 47% e questo dato ci relega tra le ultime posizioni in Europa. La conciliazione vita-lavoro rappresenta l’eterno nodo irrisolto e il Jobs Act, insieme alla legge di Stabilità 2016, prevede misure concrete per agevolare le donne e le famiglie.
Partiamo quindi da una breve analisi dei provvedimenti previsti dalla recente riforma del Lavoro. Il congedo obbligatorio diventa più flessibile ed estendibile a casi come il parto prematuro o il ricovero del neonato; mentre il congedo di maternità, che garantisce il 30% della retribuzione giornaliera, può essere esteso dai tre ai sei anni del figlio, fino agli otto anni nei casi di famiglie meno abbienti.
L’aspettativa non retribuita si estende fino ai 12 anni di vita del figlio e il congedo di paternità può essere richiesto da tutte le categorie di lavoratori. Il padre ha diritto a quattro giorni di congedo da usufruire entro i primi cinque mesi di vita del figlio. I primi due giorni sono obbligatori, mentre il terzo e il quarto sono alternativi al congedo della madre. Se il padre ne usufruisce la madre ridurrà di due giorni i cinque mesi di congedo.
Un’innovazione significativa rispetto al passato riguarda l’indennità di maternità, che viene erogata anche alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata dell’Inps, anche nel casoin cui le aziende non abbiano versato i contributi previdenziali. L’indennità di maternità viene erogata anche alle libere professioniste, pure in caso di adozione o affidamento.

Altre innovazioni riguardano il part time e il telelavoro. Il part time può essere richiesto in caso di malattie gravi o in alternativa al congedo parentale, mentre il telelavoro, se accordato per sostenere le esigenze di cura, non rientra nel calcolo dei limiti previsti dalla legge. Una ulteriore novità è rappresentata dal congedo retribuito di tre mesi per le donne vittime di violenze di genere.
La legge di Stabilità, infine, con le modifiche all’articolo 12 (vedi gli articoli di Franca Maino e Giulia Mallone pubblicati sul numero 108 di Persone&Conoscenze e sul numero 268 di Sviluppo&Organizzazione) dimostra di voler sostenere il welfare aziendale, dando alle aziende strumenti concreti per assecondare i bisogni delle persone nelle varie fasi della vita. Altro importante tassello è rappresentato dal Disegno di legge, già approvato dal Consiglio dei Ministri, sullo smart working, considerato una modalità flessibile di lavoro subordinato. Per agevolare la conciliazione, le persone potranno svolgere, per periodi concordati e nel rispetto dei limiti della durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla contrattazione collettiva, la propria mansione non necessariamente nel luogo di lavoro.
Questo, sintetizzato, lo scenario all’interno del quale ci dobbiamo orientare. Ma la realtà, oggi, qual è? I dati ci dicono che l’offerta di servizi per l’infanzia rimane ancora largamente insufficiente mentre il part time è sempre meno una scelta volontaria della lavoratrice quanto piuttosto uno strumento che consente all’azienda di ridurre il costo del lavoro, confinando il lavoro femminile a mansioni non strategiche e poco retribuite. La maternità continua a essere un ostacolo e le donne tra i 35 e i 45 anni rappresentano una fascia penalizzata. Significativa anche l’istituzione del congedo retribuito per le violenze di genere. Le istituzioni riconoscono che il problema esiste. Perché al riconoscimento oggettivo della presenza femminile in tutti gli ambiti della nostra economia, molti uomini non riescono a superare un modello di relazione che fa capo a una società patriarcale e a un modello di relazione che, di fatto, nega la libertà alle donne. Pare che a star meglio stiano le donne che siedono dei Cda: grazie alla legge Golfo-Mosca, la 120 del 2011, l’Italia è uno dei Paesi con più donne nei Consigli di amministrazione ed è stato dimostrato che le imprese dove il 30% del board è composto da donne registrano un incremento dell’utile netto del 6%. Se questo effetto positivo potrà ricadere anche sull’occupazione femminile, non è dato sapere. Per ora, nutriamo speranze.
Luci e ombre quindi, anche perché nelle organizzazioni prevale il non detto, difficile ammettere la sofferenza. Ma il lavoro svolto dalla Consigliera di Parità della Regione Lombardia, Carolina Pellegrini, che abbiamo interpellato per questa storia di copertina, testimonia che un cambio culturale, se pur in corso, ha ancora molta strada da fare per tradursi in dinamiche organizzative che valorizzino il lavoro femminile. Da un lato quindi abbiamo i dati che fotografano situazioni di grande sofferenza e, dall’altro, testimonianze di donne, Direttori del Personale, imprenditori che, se pur percepiscono il tema, non lo avvertono né come priorità né come problematicità, anzi. Una percezione che fa il paio con i dati emersi dall’Agenda HR 2015 e 2016 (vedi articolo pubblicato sul n. 109 di Persone&Conoscenze) dove i temi legati alla diversity non sono affatto considerati prioritari dalla Direzione del Personale. Concludiamo dicendo che in questo ambito sono pericolosissime le generalizzazioni. Ci sono aziende e imprenditori che valorizzano il merito, come racconta Cristina Zucchetti nelle prossime pagine, mentre Paola Pomi ammette le difficoltà che hanno le donne italiane ad accreditarsi nel mercato internazionale. Ci sono poi Direttori del Personale che non rinunciano al talento e forniscono strumenti di conciliazione. Ma le donne, cosa pensano, come stanno? Ne abbiamo interpellate parecchie. Nessuna ha accettato di raccontarsi.

Persone al lavoro. Come stanno?
Per iniziare la nostra inchiesta, è sempre bene partire dai dati. Ci confrontiamo con la Consigliera di Parità della Regione Lombardia, Carolina Pellegrini. È lei a curare l’edizione biennale del rapporto sull’occupazione femminile e maschile in Lombardia nelle imprese con più di 100 addetti. Abbiamo tra le mani il rapporto 2012/2013 e la Consigliera sta lavorando alla stesura della prossima edizione. I dati sono importanti per inquadrare il contesto nel quale ci muoviamo.

Quale dato emerge forte dalla vostra rilevazione?
Ogni due anni facciamo dei focus sulle questioni più interessanti: il part time, le carriere e la segregazione orizzontale, quel fenomeno per cui in alcuni settori la presenza femminile è più alta sulla base di stereotipi che ritengono le donne più idonee ad alcune mansioni rispetto agli uomini. Il dato che è emerso è che rispetto all’uscita di maschi dalle carriere apicali le donne sono rimaste nella loro posizione, anzi c’è stato un piccolo incremento di popolazione femminile. La ragione? Non sono retrocesse dalle posizioni apicali perché costano meno e sono meno abili degli uomini a negoziare. Altro dato oggettivo è l’utilizzo del part time, oggi non più richiesto per motivi di conciliazione, ma imposto dal datore di lavoro. La conciliazione è ancora un grande scoglio e registriamo un’elevata percentuale di donne che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio. Il Jobs Act ha contribuito a un salto culturale, ad esempio con ilcongedo di paternità; lo consideriamo un piccolo passo avanti. Ma la strada è ancora molto lunga.

Altro tema spinoso, il part time.
Quale la vostra lettura del fenomeno? Sono sempre più le donne a lavorare a tempo parziale, dalla nostra rilevazione sono l’83,4%. Le quote di lavoro part time sono cresciute negli ultimi anni, sia per gli uomini sia per le donne. Il fatto è che dalle letture recenti del mercato del lavoro, gran parte del nuovo lavoro part time è del tutto involontario e rappresenta una quota di sotto-occupazione forzata per mancanza di alternative al lavoro full time e molti occupati part time avrebbero in realtà necessità di lavorare a tempo pieno. Questo ci allontana dalla prospettiva tradizionale del lavoro femminile a tempo parziale quale strumento di conciliazione famiglia-lavoro.

Da queste parole emerge forte quanto il lavoro femminile sia una questione tutt’altro che risolta. E la maternità è ancora un problema?
Certo, basta guardare ai casi di demansionamento al rientro dalla maternità. I casi si riferiscono a denunce da parte delle lavoratrici che al rientro dalla maternità sostengono di essere state spostate da altri uffici o sedi con assegnazioni di altre tipologie di mansioni (tendenzialmente peggiorative) rispetto a quelle assegnate nel periodo precedente la maternità.

Che azioni dovrebbero essere messe in atto secondo lei?
Servono azioni vere, di sistema, che coinvolgano tutti gli attori. Ci siamo occupati di medicina di genere, di violenza, orientamento, segregazione orizzontale, abbiamo ottenuto incentivi più alti per le imprese che assumono donne Over 45. La Pa dimostra grande attenzione, con i comitati di garanzia, e l’attenzione sui temi del benessere organizzativo e del welfare inizia ad essere compresa nelle agende. Il Contratto Unico di Garanzia con le sue funzioni positive e di controllo può intervenire sull’organizzazione del lavoro con benefici immediati e positivi.

Nel privato cosa accade?
Nel privato potrebbero essere messe in atto molte più azioni positive, ma le aziende, molto spesso, non conoscono i vantaggi fiscali del welfare aziendale. Se ne parla di più, i legislatori stanno affrontando il tema (pensiamo alle modifiche dell’art. 12 della legge di Stabilità che favorisce l’adozione di strumenti come il welfare aziendale) ma la situazione non è molto cambiata e la casistica del rapporto è evidente. Il demansionamento è un fenomeno che registriamo e le donne, spesso, non trovano più la scrivania al rientro dalla maternità. E noi, purtroppo, abbiamo sempre meno strumenti per agire.

A cosa si riferisce?
Non abbiamo un fondo per operare. Siamo l’unico organismo che si occupa delle donne e per i prossimi tre anni non abbiamo fondi a bilancio. Questo, dal punto di vista politico, rappresenta un segnale molto negativo. Non c’è il Ministero delle Pari Opportunità, non c’è un sottosegretario. La considerazione per il tema è poca. L’unico organismo di garanzia per la tutela delle donne nel mondo del lavoro nonché il solo sponsor per le politiche attive, che servono aevitare i casi di discriminazione, è senza fondi e se la mia figura viene considerata ‘volontaria’, questo la dice lunga… Fino al 2017 il nostro fondo è a zero. Non abbiamo soldi nemmeno per pagare i legali. Non abbiamo le risorse e gli strumenti per portare avanti le istanze che riceviamo.

Quali istanze arrivano, in quali casi le donne si rivolgono a voi?
Le motivazioni prevalenti riguardano la gestione degli orari di lavoro, le procedure aziendali connesse al licenziamento, il demansionamento; i casi di mobbing, violenze e maltrattamenti sembrano trovare origine nella difficile relazione all’interno degli uffici creata dalle esigenze di conciliazione tra impegni familiari e lavorativi. Registriamo anche trattamenti disparitari in relazione alla maternità: mancata indennità, mancata formazione e conseguente esclusione dalla progressione di carriera nel periodo protetto.

Avete registrato maggiori istanze da alcuni settori specifici?
Dalla Pa ne arrivano parecchie, come da ospedali e grandi centri commerciali, da piccole aziende molto meno. Le cooperative serie hanno realizzato il bollino delle pari opportunità e ho percepito tantissima attenzione. La cooperazione che offre servizi ha una percentuale femminile alta. Registriamo qualche caso di molestia, ma la maggior parte delle istanze è legata alla maternità e alla conciliazione. Molte donne che dovevano andare in pensione sono rimaste al lavoro. Un allungamentodella vita lavorativa che si ripercuote sulle giovani coppie: se i nonni che si possono occupare dei figli piccoli non possono garantire la loro disponibilità, i problemi aumentano.

Si devono introdurre strumenti di innovazione sociale, quali?
In un momento di crisi i servizi calano, si alza l’età pensionabile e le donne hanno maggiori difficoltà. Le aziende, soprattutto quelle di medie dimensioni, non hanno una conoscenza dettagliata dei meccanismi fiscali e dei benefici derivanti dall’introduzione di strumenti di welfare. I consulenti spesso non sono aggiornatissimi sui temi fiscali. E se i consulenti non sono in grado di portare cultura sulla fiscalità, diventa difficile… Bisognerebbe lavorare sui contratti, sulla gestione attiva della maternità; la donna in maternità non può restare sganciata dall’azienda per molti mesi, è necessario trovare strumenti che evitino alla lavoratrice di trovare un altro mondo quando rientra in azienda. E poi bisognerebbe lavorare maggiormente sulla contrattazione di secondo livello per personalizzare i servizi di welfare. Diciamo che dal punto di vista culturale c’è molta più attenzione, dall’altro lato i dati dicono che la strada da fare è ancora molto lunga.

Per concludere, la situazione delle donne, oggi, qual è?
Molte donne non si mettono in carriera perché sanno che con i figli non ce la faranno mai. Decidono di non puntare sulla carriera. E lo fanno prima.

 

Per leggere gli altri articoli della Storia di copertina di Persone&Conoscenze di marzo 2016 sul tema donne e lavoro, scrivere a daniela.bobbiese@este.it o chiamare il numero 02.91434419

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