La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

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A 51 anni suonati osservo la carriera professionale di mio padre alla mia stessa età, curriculum che ho seguito con attenzione perché rappresentava per me un modello, un bravo padre e un manager amato dai propri collaboratori.

E perché la vicinanza con il suo lavoro mi ha consentito di frequentare ambienti e contesti simili.

Dopo una formazione scolastica di tipo tecnico e i primi lavori da ‘tecnologo’, venne assunto alla Necchi di Pavia, specializzata in macchine da cucire, quando l’azienda era al culmine del successo. Leggi tutto >

robot

Il mantra della centralità della persona in azienda sembra svuotarsi di contenuti e di credibilità davanti a uno scenario prossimo venturo, ma già chiaramente spalancato ai nostri occhi, fatto di interazione tra uomini, processi basati sull’elaborazione di una mole impressionante di dati esausti, macchine interconnesse e sempre più intelligenti. Organizzazioni fluide in cui si coniuga­no ‘impermanenza’ delle professionalità e volatilità delle collaborazioni.

Le modalità stesse in cui si esprimeranno la formazione e la gestione delle persone richiedono un ripensamento e una revisione critica. A partire forse dal termine stesso di “risorsa umana”, soprattutto se “risorsa” è parola che richiama la sorgente (source in lingua inglese) della ge­nerazione del valore e non il ‘liquido’ che ne scaturisce.

Il punto è che il sistema della formazione e le profes­sionalità non riescono a tenere il passo in uno scenario caratterizzato proprio dalla liquidità nell’uso della forza lavoro e dalla volatilità delle competenze operative.

Ci troviamo di fronte a un vero paradosso: l’era della tra­sformazione digitale richiederebbe più intelligenze, ma in Italia il numero di laureati, soprattutto nelle discipline tecnico-scientifiche, è inferiore alla media europea e di gran lunga più basso di quello dei Paesi avanzati. Assi­stiamo inermi “a un’emigrazione di giovani laureati che non ha precedenti, a un differenziale salariale tra laure­ati e non laureati che si restringe, un’alta percentuale di laureati che sono sovra-istruiti rispetto al lavoro svolto”, come denuncia il Rapporto scenari industriali di Confin­dustria. Non servirà dunque una preparazione superiore per operare nelle aziende digitali?

Robot contro umani

Eppure dovremo presto fare i conti con il portato più va­sto della quarta rivoluzione industriale:

l’avvento delle macchine intelligenti ad alto grado di sostituzione del lavoro umano Leggi tutto >

Purtroppo è una verità: nella società post industriale le parole ‘cambiamento’ e ‘riforma’ sono state sovente vis­sute dall’opinione comune come sinonimo di fregatura e di disgrazie in arrivo. Eppure siamo tutti sopravvissuti indenni, negli ultimi 60 anni, alle varie rivoluzioni che hanno inciso profondamente il modo di lavorare.

Pensiamo a cosa sarebbero le organizzazioni senza l’ap­porto dell’informatica, entrata timidamente nei grandi gruppi negli Anni 60 e ormai sviluppatasi in modo espo­nenziale e capillare anche nella sfera quotidiana. O alla robotica nelle fabbriche. O alle banche online. E pensia­mo a quella marea di operai generici, impiegati d’ordine, segretarie, che ancora negli Anni 70 e in parte degli Anni 80 pullulavano ovunque. Chi se ne ricorda più?

Torniamo con la mente a quelle aziende, sovente ap­partenenti a gruppi multinazionali, vere e proprie ‘navi scuola’, all’interno delle quali alcuni mestieri venivano appresi, e soprattutto perfezionati, a livelli di eccellenza parallelamente a stili direzionali che si riflettevano ad­dirittura sul modo di abbigliarsi e di esprimersi, e che costituivano la garanzia di un solido sapere e di un in­dubbio spessore professionale.

Oggi è più probabile che si venga assunti solo se ‘

impa­rati Leggi tutto >

È indubbio che la forte spinta al welfare sia strettamente correlata al perdurare e all’intensità della crisi che ha colpito il nostro tessuto economico. La necessità di garantire una integrazione dei redditi e l’adozione di politiche retributive volte a premiare il merito si scontrano con un generale contesto macroeconomico e fiscale vincolante e con la restrizione delle disponibilità dei sistemi di welfare pubblico, riducendo l’efficacia dei protocolli di intesa siglati nel recente passato dalle parti sociali sugli incentivi alle retribuzioni di produttività.

Ci troviamo oggi di fronte a un duplice orientamento nel welfare contrattuale che tende ad avviarsi a maturità: di primo livello per quanto riguarda gli strumenti condivisi nei contratti collettivi nazionali, di secondo livello nei contratti aziendali. In entrambi i casi risulta fondamentale da un lato l’adeguata conoscenza dei fabbisogni dei beneficiari al fine di progettare servizi di elevata qualità, dall’altro che si avviino adeguate azioni (di comunicazione, di confronto, di orientamento, ecc.) volte a rafforzare la consapevolezza della domanda dei beneficiari stessi. In mancanza di tali presupposti, come è ovvio, nessuna politica di welfare riuscirà a raggiungere gli obiettivi auspicati.

Nel presente contributo si intende evidenziare la criticità di tale snodo nella definizione di strumenti di welfare, nel caso della contrattazione sia di primo sia di secondo livello. Nel primo caso si farà riferimento all’ambito della formazione contrattata e – più specificamente – della formazione del management su cui Quadrifor vanta un’esperienza più che ventennale. Nel secondo caso si offriranno alcune valutazioni e riflessioni in base alle realtà a oggi osservate, direttamente e indirettamente.

La formazione come strumento di welfare

Come è noto, nella finalità di favorire la transizione a un’economia basata sulla conoscenza, con la strategia Europa 2020 l’Unione europea ha definito la necessità di raggiungere, entro la scadenza del 2020, il livello minimo del 15% di popolazione attiva coinvolta in processi di istruzione e formazione. Nell’Europa a 28 Paesi si assiste a una situazione molto variegata, in cui i Paesi del Nord Europa mostrano (da tempo) performance superiori al livello stabilito. È il caso della Danimarca, della Svezia, della Francia, dell’Olanda, della Finlandia e dell’Austria. L’Italia, nel 2016, occupa la 20esima posizione nell’Ue28, con il 7,9% della popolazione adulta coinvolta a vario titolo in iniziative di istruzione e formazione, anche se va detto che si tratta di un dato in crescita (dati Eurostat, febbraio 2017).

Il dato comunque non tiene conto delle grandi disparità presenti sul territorio nazionale, che registra tassi maggiori di partecipazione al Centro Nord del Paese a discapito del Sud e delle Isole, tra i giovani più che tra i senior, tra coloro che hanno un titolo di studio più elevato e che occupano posizioni organizzative più rilevanti.

Nelle indagini Istat e Isfol (oggi Inapp) è stato più volte evidenziato come la partecipazione alle attività formative sia direttamente proporzionale al livello di scolarizzazione e al livello di inquadramento dei lavoratori. Dirigenti e quadri risultano essere i maggiori fruitori di iniziative di formazione continua (con una particolare prevalenza dei middle manager), seguiti nell’ordine da impiegati, operai specializzati e operai generici.

I diversi livelli presentano inoltre differenze di genere, laddove si considerano i livelli di scolarizzazione. Nel caso dei middle manager del Terziario, popolazione di riferimento di Quadrifor, le donne tendono (proporzionalmente alla loro effettiva presenza nel livello di inquadramento) a partecipare più frequentemente e le elaborazioni statistiche sui quadri iscritti dimostrano una proporzionale prevalenza di titoli di studio più elevati tra le donne quadro (46,6% con titolo universitario o equivalente a fronte del 42% degli uomini, il 14,9% con master universitario o dottorato rispetto all’8,9% dei colleghi). Resta il fatto che le donne sono, attualmente, circa il 30% dei middle manager iscritti a Quadrifor.

Fin dalla metà degli Anni 90 la formazione è stata reinterpretata come strumento di un modello di welfare ‘leggero’, che mira da un lato all’occupabilità dei lavoratori e, dall’altro, allo sviluppo delle imprese attraverso il rafforzamento delle competenze del proprio personale. È una finalità che impone l’obiettivo di un innalzamento dei tassi di partecipazione, tenendo al contempo conto delle priorità di intervento sugli specifici target, che richiedono impegni differenti.

 

Qualità dell’offerta e consapevolezza della do­manda

Il tema dell’incremento della partecipazione, nei docu­menti di policy (soprattutto nazionali), è stato frequen­temente sovrapposto a quello dell’efficacia della forma­zione. E quest’ultimo è stato per lo più ricondotto alla dimensione dell’innalzamento della qualità dell’offerta. In termini di sistema, il continuo affinamento, a livello nazionale e su impulso europeo, degli strumenti dell’accreditamento e dei modelli di monitoraggio e valutazio­ne sta dando frutti di un certo interesse, ma la sensazio­ne corrente è che vi siano altri versanti del problema ancora da rafforzare. Le difficoltà sono attribuibili ad almeno tre ordini di fattori.

Difficile prevedere gli scenari evolutivi

La prima difficoltà riguarda la difficoltà di prevedere scenari evolutivi. La globalizzazione e la nuova rivoluzione tecnologica hanno reso impraticabili i modelli finora impiegati per leggere le tendenze, in ragione di eventi e innovazioni disruptive, con effetti di forte discontinuità sui processi chiave socio-economici, sia in ambito macro sia micro. I cicli di vita dei prodotti e dei servizi prevedono tempi rapidi di adozione: prendendo a riferimento le classificazioni classiche del marketing, le quote degli innovator, degli early adopter e della early majority si compattano in una fase iniziale ristretta, con una fase di declino anch’essa più rapida che nel classico modello gaussiano.

Da ciò ne discende che l’allineamento fra possibili traiettorie di sviluppo dei modelli di business e l’identificazione delle competenze necessarie per farvi fronte è così reso opaco e fragile. Ne è esempio l’affermarsi delle nuove tecnologie digitali, che sta rivoluzionando i sistemi di produzione e di relazione con i mercati e i ruoli stessi di produttori e consumatori. La ridefinizione dei ruoli professionali e, soprattutto, delle competenze incontra particolare difficoltà soprattutto tra le imprese di piccola e media dimensione, determinando un nuovo e ulteriore tipo di digital divide.

Un’offerta frammentata che fatica a interpretare i fabbisogni

Un secondo ordine di fattori riguarda la capacità dell’offerta di formazione di intercettare i fabbisogni formativi e di identificare prospettive di innovazione dei profili nelle organizzazioni in cambiamento. In misura speculare al tessuto economico nazionale, composto prevalentemente da piccole realtà (al di sotto dei 50 dipendenti) e soprattutto da micro imprese (con meno di 10 addetti), in Italia è attivo un importante numero di agenzie formative le cui dimensioni frequentemente consentono una visione artigianale – spesso di pregio – delle dinamiche professionali e organizzative, ma con scarse opportunità di approvvigionamento di know how e di innovazione.

La critica alla frammentarietà dell’offerta ha portato a visioni parziali dei problemi, proponendo le organizzazioni produttive come luoghi di apprendimento e l’on the job learning come paradigma dell’acquisizione delle competenze che realmente servono al mondo del lavoro.

Ciò equivale a supporre che le capacità di interpretare i fabbisogni e di saper intervenire su di essi siano localizzate nelle imprese, ma basterebbe citare i dati sulla bassa capacità di innovazione delle imprese nostrane per rendere evidente l’incerta solidità di questa ipotesi: le statistiche europee confermano anche nel 2016 l’Italia tra i Paesi moderate innovator (al 18esimo posto nell’Europa a 28 Paesi), al di sotto della media Ue28 e in una posizione distante da quella dei principali competitor europei, i cosiddetti innovation leader (Innovation Union Scoreboard, 2016). Il dato è facilmente spiegabile proprio dalla presenza preponderante di imprese di piccola dimensione, che faticano a individuare strategie opportune e a reperire le risorse necessarie per innovare.

Non è solo un problema di qualità degli interventi

Infine, un terzo ambito riguarda le modalità con cui le policy nazionali definiscono le procedure per garantire la qualità e la valutazione dell’efficacia degli interventi. In questo campo il modello proposto dal pubblico si è tradotto in un grande impegno profuso nei sistemi di accreditamento delle strutture formative e nella valutazione dell’impatto degli interventi promossi e finanziati da risorse nazionali e/o europee. Funzionali all’evoluzione dell’offerta formativa in un determinato periodo storico, tali modelli stanno evidenziando oggi diversi limiti che impongono ulteriori riflessioni per l’allineamento tra domanda e offerta di formazione.

 

Sviluppare una domanda più consapevole

In termini più generali, a fronte di un continuo e importante affinamento delle indicazioni e delle metodologie per il miglioramento della qualità dell’offerta, diversi orientamenti di policy da parte di alcuni Paesi europei sembrano arricchire questo approccio con programmi e interventi maggiormente volti a promuovere la crescita della domanda, stimolandone la consapevolezza nei singoli cittadini.

È il caso, per esempio, del sistema francese di formazione continua, riformato con la Legge 288-2014 del 5 marzo (legge relativa alla formazione professionale, al lavoro e alla democrazia sociale). Senza addentrarsi nella complessità del sistema, è possibile in sintesi evidenziare come le innovazioni introdotte convergano su una concezione del diritto individuale alla formazione, spostando l’asse dal solo miglioramento della qualità dell’offerta verso una maggiore consapevolezza della domanda.

Attraverso la disponibilità di un ‘Conto individuale di formazione’, ogni lavoratore dispone di un accredito automatico di ore di formazione di cui può fruire nell’arco di un anno; e diversi sono gli strumenti prefigurati dalla legge (e predisposti dalla propria organizzazione-istituzione o presso servizi pubblici) per orientare i lavoratori a riconoscere la coerenza tra il proprio progetto di vita e di lavoro e l’opportunità di acquisire-aggiornare le proprie competenze. Si affaccia, in altri termini, il tema della responsabilità individuale, sia del lavoratore sia del datore di lavoro, nella considerazione della formazione come strumento di crescita e di adattamento ai cambiamenti. L’introduzione dell’innovazione si avvantaggia della lunga e importante esperienza del sistema francese nella valutazione delle competenze, nell’orientamento individualizzato, nel sostegno alle scelte individuali di crescita e formazione.

Altri sistemi europei di formazione continua, come quello spagnolo, vanno in questa direzione, assumendo la necessità di un’equa responsabilizzazione del datore di lavoro e del lavoratore sull’apprendimento di nuove competenze. Nel Nord Europa, infine, la propensione alla responsabilizzazione individuale è mediata da fattori culturali che rendono più agevole l’applicazione di policy così conformate.

Nel sistema di formazione continua francese un importante ruolo è rivestito dagli organismi intermedi OPCA (Organisme Paritaire Collecteur Agréé), istituiti nel 1971 e incaricati della raccolta delle risorse provenienti dai contributi delle imprese per il finanziamento di piani formativi concordati tra le parti, nonché di altri dispositivi di orientamento e formazione.

Costituiti dalle parti sociali più rappresentative a livello nazionale, hanno costituito il modello di riferimento per la costituzione anche in Italia di organismi analoghi, i Fondi Paritetici Interprofessionali. Attualmente gli OPCA sono 20, due a carattere interprofessionale e intersettoriale (Agefos-PME e Opcalia) e 18 settoriali. Le risorse sono impiegate per la realizzazione di attività previste dalla normativa francese in tema di sviluppo delle risorse umane:

  • finanziamento di attività di formazione;
  • supporto all’orientamento e bilancio delle competenze;
  • validazione delle competenze acquisite nel corso dell’esperienza di lavoro.
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