La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

Accordo tra le parti sociali, più certezza alle regole del gioco

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Autonomia, innovazione, partecipazione. La pre-intesa tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil su un rinnovato modello contrattuale s’impernia, come ha evidenziato Giampiero Falasca su Il Sole 24Ore, su queste tre parole chiave, sostantivi e non aggettivi.

Autonomia riconosciuta a ogni categoria di adottare ogni necessaria variante allo schema, finora eccessivamente rigido, del Ccnl: il contratto collettivo funzionerà come una grande cornice entro la quale si iscriveranno i contratti di categoria assumendone le linee guida, i Trattamenti economici minimi (Tem) e il Trattamento economico complessivo (Tec) che comprende anche gli ulteriori istituti economici che il contratto riconoscerà a tutti i lavoratori del settore. Autonomia è perciò la facoltà lasciata alle singole categorie di scegliere il peso e lo spazio da attribuire al primo e al secondo livello contrattuale, ma è anche il valore differenziale che s’intende attribuire al livello aziendale.

Innovazione: motore di progettualità e di sviluppo per incentivare e valorizzare i processi di digitalizzazione ormai indifferibili per ridurre i ritardi nel settore Manifatturiero rispetto a Germania e Francia. La transizione verso l’Industria 4.0 non si fa per Decreto legge, ma passa anche da qui, dalla piena convergenza tra impresa e sindacato per lavorare nella direzione della profonda trasformazione non solo tecnologica, ma organizzativa e culturale. E nella pre-intesa vi sono le premesse per un forte “patto di fabbrica” che guidi e supporti i processi di cambiamento.

Partecipazione: direttamente connessa alla gestione dei processi di innovazione, l’intesa prevede “la diffusione di modelli di partecipazione organizzativa di natura sperimentale, orientati a sostenere i processi di innovazione delle imprese”.

Sindacati di nuovo protagonisti

Al di là del sindacalese del linguaggio, leggiamo tra le righe la rivendicazione di un ruolo da protagonista delle rappresentanze dei lavoratori nell’accompagnare l’introduzione dei cambiamenti tecnici e organizzativi nelle aziende. Ed è forse proprio qui che si riaffaccia un’ambiguità storica che neanche questa intesa riesce a sciogliere.

Dagli Anni 70 infatti, attraverso la continua negoziazione di “nuovi modelli di relazioni industriali” (ricordo i contratti-pilota dei Metalmeccanici negli Anni 80 sul tema della “Nuova Organizzazione del Lavoro”, le nuove regole per il raffreddamento dei conflitti negoziate con il governo Prodi, il “Patto per l’Italia” che nel 2002 la Cgil non volle sottoscrivere; i diversi protocolli, fino all’accordo interconfederale del 14 luglio 2016 che definiva i principi della contrattazione di prossimità e le regole di rappresentatività), quello della partecipazione è stato sempre un principio affermato, ma spesso mal praticato.

Comitati paritetici “tecnico-consultivi” – per altro previsti dai Ccnl – sono proliferati nelle medie e grandi aziende ogni qualvolta si è introdotta una pur minima riorganizzazione. Il sano principio del coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, diffondendo consapevolezza e cultura industriale, può agire da efficace acceleratore del cambiamento oppure da freno, prendendo la deriva di una puntigliosa e spesso logorante micro-contrattazione sulle mansioni e qualifiche dei lavoratori coinvolti.

Un’occasione spesso sfruttata da Rsu di ogni sigla per acquisire uno spazio di potere e di consenso affiliativo: da comitato a ‘commissione’ il passo è stato sempre troppo breve. Così come l’ambiguità del senso della partecipazione tra funzione di sostegno e sviluppo, e funzione di controllo, rivendicazione e censura dell’operato aziendale. Un’ambiguità storica, come si diceva, legata al dato di fatto della scissione tra la responsabilità dei risultati, che resta unicamente in capo all’imprenditore, e il diritto all’informazione e al controllo di cui è titolare il sindacato.

Nuova democrazia industriale italiana

Sempre tenendosi a distanza dal modello tedesco della Mitbestimmung, il sistema italiano di democrazia industriale, dal Dopoguerra a oggi – tra divisioni e unità sindacale, proliferazione di sigle autonome, mancanza di certezze sul chi-rappresenta-chi, e di una legge che renda applicabili erga omnes gli accordi sottoscritti in nome degli iscritti – è passato dal modello conflittuale della contrapposizione degli interessi a quello della concertazione multilivello (dall’azienda, all’associazione datoriale, alle Istituzioni, al Governo), ma senza riuscire a trovare ancora una sede di costruttiva composizione della scissione tra responsabilità dell’impresa e rappresentanza degli interessi collettivi dei lavoratori.

Da parte aziendale, invece, sembra essersi rafforzata nel tempo, ma soprattutto dopo aver superato la fase conflittuale degli Anni 70 e 80, la convinzione del ruolo positivo delle relazioni industriali sia nella gestione delle crisi sia del clima interno, fino a includere, almeno nelle aziende più avanzate, anche il sindacato tra gli stakeholder dell’impresa competitiva.

L’intesa di questi giorni può fornire un solido mattone per pavimentare questa strada. Se le prime due parole, autonomia e innovazione, con il loro portato organizzativo e visionario, riusciranno a forzare anche la terza, partecipazione, a dare certezza alle regole del gioco.

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