La cura della persona e dell’ambiente di lavoro come opportunità di crescita per le organizzazioni

I controlli a distanza nel Jobs Act

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di Alessandro Boscati, Ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano

 

Senato - Jobs ActUno dei temi più discussi, anche a livello mediatico, nell’ambito del percorso riformatore noto come Jobs Act, è stato, ed è tutt’ora, quello dei controlli a distanza sull’attività lavorativa. Si tratta, con tutta evidenza, di una materia estremamente delicata e strettamente connessa con l’inarrestabile processo di avanzamento tecnologico che coinvolge, da un lato, profili di riservatezza e di dignità della persona del lavoratore e, dall’altro lato, di tutela dell’organizzazione e del patrimonio aziendale, nonché della sicurezza del lavoro.
Peraltro, l’idea di apportare una modifica alla disciplina dettata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori ha fatto ingresso nella legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (prologo dei decreti di attuazione del Jobs Act), solo in sede di approvazione in Senato al maxi-emendamento governativo, sorretto o, meglio, ‘blindato’ dalla fiducia al d.d.l. A.S. 1428/2014. Solo a partire da tale momento, l’art. 1, comma 7 lett. f) l. 10 dicembre 2014 n. 183 ha delegato il Governo a intervenire con la revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, “tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive e organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore”.
La delega è stata poi esercitata mediante uno degli ultimi decreti del Jobs Act e, in particolare, con l’art. 23 d.lgs. 14 settembre 2015 n. 151 recante “disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità”, con cui è stato riscritto l’art. 4 dello Statuto del Lavoratori (l. 300/1970).

Il previgente art. 4 dello Statuto dei Lavoratori

controllo_36711Al fine di comprendere l’impatto delle modifiche intervenute in materia di controlli a distanza, sembra necessario compiere un passo indietro, concentrandosi sulla disciplina previgente.
L’originario art. 4 dello Statuto dei Lavoratori era caratterizzato da una struttura bipartita. Da un lato, al comma 1, vi era il divieto generale e assoluto per il datore di lavoro di utilizzare “impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (c.d. “controllo intenzionale”).
Dall’altro lato, ai sensi del comma 2, il datore di lavoro poteva invero avvalersi di impianti e strumenti che fossero richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivasse comunque la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (c.d. “controllo preterintenzionale”), ma solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. In difetto di accordo, provvedeva, su istanza del datore di lavoro, l’Ispettorato del lavoro.
Il secondo comma dell’art. 4 era una disposizione oltremodo interessante anche a livello sistemico: infatti, nell’ambito di un sistema di relazioni industriali, come quello italiano, non avvezzo a pratiche ‘partecipative’, la co-determinazione delle modalità di utilizzo degli strumenti di “controllo preterintenzionale” dei lavoratori risultava essere una delle poche disposizioni in comune con gli ordinamenti, come quello tedesco, notoriamente basati sul forte coinvolgimento dei lavoratori nelle modalità di organizzazione del lavoro.
Ma per quale motivo, ci si potrebbe domandare, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori era da più parti ritenuto una disposizione datata e pertanto bisognosa di – più o meno profondo – aggiornamento?
Se una parte della dottrina aveva ravvisato nella complessità della procedura co-determinativa poc’anzi richiamata un vizio, per così dire, originario della disposizione, in molti avevano segnalato come l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, risalente al 1970, necessitasse un adeguamento all’evoluzione tecnologica nel frattempo intervenuta, al fine di rendere la previsione compatibile con l’attuale contesto, caratterizzato dall’utilizzo sempre maggiore degli strumenti informatici. Si pensi al personal computer, al telefono cellulare (oggi divenuto addirittura smart), al badge elettronico per la verifica degli accessi e delle presenze e ad altri “marchingegni” simili sul piano funzionale: rispetto a questi, l’onere di attivazione della procedura co-determinativa, a pena di inutilizzabilità dello strumento, poteva apparire eccessivamente gravoso per il datore di lavoro, sino a giungere al paradosso, segnalato in dottrina, per cui, interpretando la disposizione alla lettera (a prescindere dal fatto che ciò poi avvenisse o meno) potesse essere richiesto un accordo sindacale per ogni postazione di pc installata.
In questo senso, va ricordato che, già prima del Jobs Act, vi era stato un tentativo del legislatore di incidere sulla disciplina in esame: come noto, il discusso art. 8 l. 148/2011 aveva infatti conferito alle parti sociali il potere di regolare, a livello decentrato (mediante il “contratto di prossimità”), la materia degli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie.
Tuttavia, analogamente a quanto accaduto – inter alia – in tema di mansioni e di licenziamento, l’intervento da ultimo menzionato non deve aver dato i frutti sperati, forse anche per la riluttanza delle parti sociali nell’applicare o addirittura nel menzionare l’art. 8 l. 148/2011, considerato dagli operatori alla stregua di un tabù, tanto da rendere necessario l’intervento diretto del legislatore – anche – sul testo dell’art. 4 l. 300/1970. 

Il ‘nuovo’ art. 4 l. 300/1970

Già dalla prima lettura dell’art. 4 l. 300/1970 riformato dal decreto 151/2015 emerge inequivoca l’espunzione dal testo del divieto assoluto, in precedenza contenuto al comma 1 della disposizione, di installare strumenti diretti al controllo dei lavoratori.
Nonostante ciò, il divieto, pur non venendo riproposto espressamente, si può ritenere presupposto all’interno del ‘nuovo’ art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Privacy-lavoratoriSi legge, infatti, nel novellato comma 1 dell’art. 4 l. 300/1970 che “gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per: esigenze organizzative e produttive; la sicurezza del lavoro; la tutela del patrimonio aziendale”.
Tali strumenti, si prevede, “possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali”. Se ne ricava, al contrario, che gli strumenti non possono essere utilizzati in assenza di accordo o qualora gli stessi non rispondano alle menzionate finalità, tra le quali, appunto, non figura il controllo dell’attività dei lavoratori; sicché può ben dirsi che il divieto del precedente comma 1 sia stato assorbito all’interno del nuovo comma 1 dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Il secondo periodo del medesimo comma 1 aggiunge che “in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Infine, il terzo periodo conclude che “in mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.
Ebbene, anche la nuova procedura prevede l’accordo sindacale, sostituibile con l’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro: anche sotto questo aspetto, si rinviene una certa continuità con la disciplina previgente.
Lo stesso non si può dire, però, con riguardo al comma 2 del nuovo art. 4 l. 300/1970, ove si legge che “la disposizione di cui al primo comma non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
Ciò significa, in pratica, che, a seguito della novella, nelle ipotesi di cui al comma 2, sono possibili controlli sul lavoratore anche in assenza della procedura co-determinativa di cui al comma 1.

I controlli tecnologici oggi ammissibili

Rispetto al testo precedente, il nuovo art. 4 dello Statuto dei Lavoratori presenta, al comma 2, una forte apertura a favore dei controlli svolti attraverso la raccolta di informazioni per mezzo degli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e degli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
jobs-act-controlli-a-distanza-pc-smartphone-744x445Si tratta di mezzi tramite i quali la raccolta di informazioni sull’attività svolta dal lavoratore avviene in re ipsa, attivandosi il controllo nel momento in cui il dipendente si avvale dello strumento, evidentemente caratterizzato da un elevato grado di innovazione tecnologica, come nel caso, appunto, dei personal computer o dei telefoni portatili.
Si è sostenuto in dottrina che la fattispecie risulta oggi addirittura prevalente su quella del comma 1, la quale opererebbe, in via residuale, solo ove non si tratti di “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e degli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
È evidente come lo scopo del legislatore sia quello di flessibilizzare alcune forme di controllo e quindi di alleggerire gli oneri del datore di lavoro, consentendogli di effettuare i c.d. “controlli difensivi”, ovvero quelle forme di sorveglianza riconducibili all’esigenza di prevenire comportamenti contra legem dei lavoratori, che in precedenza non avevano una certa collocazione sistematica e che oggi paiono ammessi, anche a fronte del richiamo alle esigenze di “tutela del patrimonio aziendale”.
Anche così si spiega il passaggio dalla fattispecie unitaria, all’interno dei “controlli preterintenzionali”, del vecchio art. 4 a quella binaria del nuovo testo: da un lato, la possibilità di controllo in presenza di condizioni sostanziali (le finalità perseguite) e procedurali (la procedura co-determinativa); dall’altro, il riferimento alle funzioni degli strumenti utilizzati e l’assenza di obblighi procedurali.
Ciononostante, come si dirà tra poco, il controllo sugli strumenti di cui al comma 2 dell’attuale art. 4 dello Statuto dei Lavoratori non può ritenersi del tutto scevro da limiti: il comma 3 della disposizione in parola prevede infatti che “le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 siano utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e, soprattutto, “nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” (c.d. “Codice della Privacy”).

Il ruolo del codice della privacy

Con il comma 3 del ‘nuovo’ art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, il legislatore mira ad assicurare alcune condizioni di legittimità per l’utilizzazione degli strumenti richiamati ai commi 1 e 2. Peraltro, il legislatore non poteva non adeguarsi alle dettagliate previsioni del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che, a sua volta, aveva fatto ai tempi espressamente salvo, all’art. 114, proprio l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Il rispetto delle prescrizioni del codice della privacy implica che il controllo (che rappresenta una fase del trattamento dei dati personali) debba svolgersi secondo i principi dettati dalla normativa in materia di protezione dei dati personali: liceità, finalità, correttezza, trasparenza, pertinenza e non eccedenza. Non si può, inoltre, non tenere conto dell’interpretazione di tale normativa fornita dal Garante per la protezione dei dati personali, il quale, nella sua ricchissima giurisprudenza e produzione provvedimentale, ha fissato tutta una serie di limiti alla sorveglianza tecnologica. Questi ultimi emergono dalla disciplina sulla protezione dei dati personali, prescindendo così dall’art. 4 l. 300/1970,19 e, soprattutto, dalla sua – più o meno ‘flessibile’ – formulazione. Un esempio in tal senso è offerto dalla sentenza della Cassazione n. 18443/2013, con cui è stata confermata una pronuncia del Garante che aveva fortemente limitato la possibilità di sorvegliare la navigazione internet del lavoratore (attraverso posta elettronica, lettura sistematica dei messaggi di posta elettronica e verifica delle pagine internet consultate dal lavoratore) sulla base delle sole prescrizioni della normativa sul trattamento dei dati personali e, dunque, a prescindere dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Il trend di affidarsi alla normativa sulla privacy pare oggi assecondato – o, comunque non contrastato – dal legislatore, che, peraltro, non poteva probabilmente fare diversamente, a meno di non intervenire pesantemente anche sul codice della privacy.
E allora, come confermato nella nota del Ministero del lavoro del 18 giugno 2015 (relativa all’art. 1, comma 7 lett. f) della legge delega), si può oggi sostenere che la nuova versione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori “non liberalizza i controlli, ma si limita a fare chiarezza circa il concetto di ‘strumenti di controllo a distanza’ e i limiti di utilizzabilità dei dati raccolti attraverso questi strumenti, in linea con le indicazioni che il Garante della privacy ha fornito negli ultimi anni”.
Del resto, per costante giurisprudenza formatasi nella materia dei controlli, lo svolgimento di forme di sorveglianza illegittime comporta l’inutilizzabilità delle prove raccolte e lo stesso legislatore ha, da ultimo, mantenuto la sanzione penale per i controlli illegittimi.

Considerazioni conclusive

Come visto, nonostante l’eco mediatica suscitata dalle modifiche alla disciplina dei controlli a distanza, emerge una certa continuità tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’ art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Entrambe le disposizioni vietano, infatti, i controlli “intenzionali” e sottopongono a una procedura codeterminativa il ricorso al controllo preterintenzionale, a esclusione, nella novella, degli strumenti “utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e “di registrazione degli accessi e delle presenze”.
Con riferimento a questi ultimi, è vero che il legislatore ha concesso un maggiore spazio al datore di lavoro, ma non mancano delicati profili di rischio, legati al perdurante ruolo del codice (e del Garante) della privacy.
In questo senso, in attesa dei primi pronunciamenti del Garante, sembra che il metodo cooperativo continui a rivestire notevole rilievo, tanto per il datore di lavoro, quanto per il sindacato. Proprio tramite l’accordo sindacale potrebbe infatti essere possibile ‘blindare’ una serie di controlli anche invasivi per la sfera privata dei lavoratori, ma necessitati dalle esigenze aziendali, come dimostrerebbe l’assenza, a quanto consta, di casi giurisprudenziali in cui, nel vigore della versione ‘originaria’ dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, un lavoratore abbia contestato le modalità di sorveglianza tecnologica introdotte nel rispetto della citata procedura co-determinativa.
In conclusione, l’accordo e, più in generale, la condivisione delle scelte organizzative a livello aziendale, non solo sulle materie di cui al comma 1 (per le quali la procedura è tutt’ora richiesta), ma anche su quelle di cui al comma 2 (nella disponibilità del datore di lavoro, Codice della privacy permettendo), potrebbe accrescere l’idea di trasparenza promossa dal legislatore, prevenire possibili conflitti e, in un’ottica di sistema, riconoscere nel sindacato un interlocutore responsabile all’interno del sistema giuridico del lavoro dell’era Jobs Act.

 

 

 

 

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